Su queste pagine si è accennato, in più occasioni, alla necessità che la politica affronti un percorso, se cosi si può dire, di “rifondazione antropologica” dei suoi fondamenti ideali e culturali. Si tratta, ovviamente, di un concetto ancora rozzo, che, però, meriterebbe forse di essere approfondito e circostanziato. Allude all’opportunità che il discorso pubblico, in cui le diverse culture politiche si incontrano e si scontrano, si ponga seriamente di fronte alla forte incidenza che l’ adozione delle più avanzate tecniche – soprattutto “bio”, ma non solo – ha sull’immagine o meglio l’interpretazione e la comprensione di sé che l’ umanità del nostro tempo elabora e rielabora. Troppi scenari sono cambiati e tutti assieme.

Innanzitutto, l’uomo non è più solo soggetto della propria azione, ma ne rappresenta anche l’oggetto. E’ in grado, cioè, di agire sulla sua stessa più intima costituzione biologica e questo cambia profondamente il modo in cui accosta la realtà. Il suo corpo, che si distende nello spazio e nel tempo, diventa una “cosa” tra le altre, e l’ “avere” un corpo prevale sull’ “essere” un corpo. Il suo sguardo, oltre a tendere verso ciò che sta là fuori, verso il mondo in cui è immerso, si rovescia e si riverbera su di sé.

In secondo luogo, quella consapevolezza della propria identità, che veniva corroborata dal suo rispecchiarsi nel mondo della natura, oggi piuttosto si modella sul mondo prodotto dalla sua cultura e soprattutto dal versante tecnico di quest’ ultima. Natura e cultura cambiano la reciproca postura ed anziché allinearsi in parallelo, si avvitano reciprocamente, come se la curvatura dello spazio in cui giacciono le costringesse a convergere o meglio a fondersi e confondersi l’una nell’altra.

Quello stesso uomo che “sentiva” la vita come un “dono” che suscita meraviglia ed incanto ed è davvero tale se, a sua volta, viene donato, sperimenta ora il disincanto di una “padronanza” di sé, che – per quanto sia ai primi passi ed in attesa di chissà quali e quanti strabilianti progressi – lo illude di poter scomporre e destrutturare sé stesso, per poi riannodare e ricombinare altrimenti la meccanica della propria impalcatura.

Infine, tutto questo avviene troppo rapidamente perché l’uomo possa accompagnare questa evoluzione con la pacatezza necessaria a valutare criticamente quanto gli sta succedendo. Né può, in questa infernale danza condotta secondo un ritmo che lo sovrasta, quasi fosse imposto dal “demone” di una inappellabile necessità intrinseca, chiedere un “time-out”, una pausa, una sospensione della partita che gli consenta di riordinare il gioco.

Eppure, se si osserva la parabola di questo cammino che sembra progredire verso la presunzione dell’ uomo di “farsi da sé”, di trovare in sé stesso ed in nessun “altrove”, la ragione ed il fondamento del proprio esistere, all’ ultima curva ci imbattiamo nelle affannose ricerche del “post” e del “trans-umano”. Cioè, nella fatica di attingere una dimensione ed una prospettiva, si potrebbe dire, “iper-umana”, che rappresenti ed attesti, sia pure passando attraverso la mera “corporeità” del soggetto, lo stesso incontenibile appello alla “trascendenza” che, da sempre – e per sempre – rappresenta la chiave di volta della sua vita spirituale, sotto ogni latitudine. Insomma, siamo sempre lì. Possiamo girarla e rigirarla come vogliamo, ma l’uomo altro non è se non colui che, infaticabile, perennemente affronta la ricerca di quel senso di sé e delle cose del mondo, che puo’ ritrovare solo nella dimensione della “trascendenza”.
Cosicché, quando la smarrisce, non puo’ fare a meno, perfino senza volerlo e senza saperlo, di costruirne dei surrogati.

In nessun modo, può rinunciarvi, perché la “trascendenza” è fattore originario, momento costitutivo e sostanziale, imprescindibile, del suo essere, e, dunque, è come se cercasse di riprodurla nella sfera dell’ “immanente”, senonché un tale orizzonte non è in grado di contenerla. Si dirà che tutto questo nulla ha a che fare con la politica ed è vero, eppure ci vuole. Se la politica o meglio le varie culture, diciamo pure le antropologie che ne ispirano le differenti forze che si contendono il suo campo, non avrà la pazienza ed il coraggio – e questo vale per tutti, a modo loro anche per i credenti e per chi non crede, a maggior ragione – di avviare questa riconsiderazione dei propri fondamenti, rischia di operare, con vecchi orpelli ideologici, attorno alla realtà viva di un “umano” che non sa cosa sia.

Questo vale, in particolare, per le questioni a più forte impatto etico, che non possono essere snocciolate una per una nel confronto politico-parlamentare, senza riconoscere che hanno una radice comune e, pertanto, rappresentano un capitolo del suo raggio d’ azione, che la politica sempre meno potrà aggirare, nel suo complesso, e sul piano del merito e per quanto concerne il metodo della sua trattazione.

In altri termini, libertà, giustizia, solidarietà, coesione sociale reggono alla prova del tempo e dei differenti sistemi politico-istituzionali, se vengono assunte come istanze saldamente fondate sulla consapevolezza ed il pieno riconoscimento del valore e della dignità dell’ uomo in quanto “persona”, attore di relazioni.

Domenico Galbiati

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