Non si deve negare a priori la buona fede, in ordine al valore della democrazia, di chi ritenga che il “presidenzialismo” – come forma paradigmatica della personalizzazione centralizzata del potere – rappresenti la soluzione istituzionalmente più efficace per garantire la governabilità di società complesse e scomposte, sgranate in mille interessi, percorse da istanze difficilmente componibili in un quadro di reciproca compatibilità. Ma sicuramente non si può ignorare la deriva pericolosa e l’errore palese che questa tesi comporta.

Si può forse comprendere che in un tempo incerto, in una fase storica di transizione, in una stagione di precarietà dei punti di riferimento che formano l’orizzonte condiviso di una determinata collettività, ci si illuda – un po’ per timore degli eventi, un po’ per ignavia, un po’ per l’oggettiva problematicità del contesto – che l’affidarsi ad un “capo carismatico”, che avochi a sé l’indirizzo da imporre al corso degli eventi, possa apparire rassicurante e risolutivo. Ma non è così. E’ vero, piuttosto, il contrario.

L’ intersezione tra piani differenti del mondo reale, la coesistenza di aspirazioni dissonanti, le ambizioni contraddittorie di “corpi intermedi” per mille motivi diversi, le domande di senso inevase e le fragilità emotive che le accompagnano, le diseguaglianze che si aggravano, istanze – ad esempio, difesa dell’ ambiente e sviluppo – che spesso si elidono a vicenda, in altri termini quella sovrapposizione confusa di fenomeni sociali che sembrano trasformare il contesto civile in una sorta di labirinto ed a cui diamo, convenzionalmente, non sapendo far di meglio, il nome di “complessità”, rappresenta una china scivolosa che ci accompagna verso un progressivo corrompimento delle società più sviluppate, fino ad una sorta di grigia e spenta entropia civile? O non è piuttosto una ricchezza?

In definitiva, siamo rassegnati alla ineluttabilità di processi, che ci sovrastano oppure osiamo pensare che forse dipenda da noi, dalla postura e dallo sguardo con cui accostiamo questa realtà, per quanto ci appaia informe? In altri termini, non dobbiamo, piuttosto, guardare alla “complessità” considerandola un’opportunità, una provocazione diretta a favorire un incremento della nostra comune umanità?

In questa fase è un po’ come se la storia ci alzasse la palla e noi fossimo timorosi, incerti, incapaci di vibrarci in aria per schiacciarla a terra dall’ altra parte, nel campo di un futuro che, ad ogni modo, fin d’ ora ci appartiene e ci attende. Se al principio della partecipazione democratica diffusa, ad un discorso pubblico aperto ed alla centralità del Parlamento si sostituisce un principio d’autorità che evochi il primato dell’ “uomo forte”, ci si abbandona ad una spirale che infine imprigiona il popolo al “capo” e contestualmente quest’ ultimo al primo, finché si giunga, inevitabilmente, come la storia dimostra, alla frattura traumatica di un rapporto che ha un che di incestuoso.

Se gli interessi che ribollono nel contesto sociale, anziché collidere orizzontalmente, ricercando, nel conflitto, i primi timidi spiragli di un possibile compromesso – che spetta alla classe politica tradurre nei termini di una più alta mediazione – al contrario, si rivolgono, ciascuno per sé, verticalmente al ”carisma” dell’uomo solo al comando, a quest’ ultimo, quanto più le tensioni si aggravano, tanto più non resta se non la chance di stringere di più i bulloni del sistema. Si rischia di scivolare, perfino senza volerlo, da una linea democraticamente legittima, di legalità, ordine e rigore al nodo scorsoio, a quel punto inevitabile, di un regime.

La complessità viene ricondotta ad una semplificazione artificiosa che corrompe la natura dei processi sociali in corso, ne travisa le domande implicite e le aspettative e, peraltro, diseduca le persone e ne compromette la piena cittadinanza. La complessità s’interpreta e si governa, anzitutto, dandole piena ed articolata rappresentanza.
Ed è questa la sfida cui sono chiamati gli ordinamenti democratici della post-modernità.

Domenico Galbiati

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