La fibrillazione politica aumenta e si ricomincia a parlare del sistema elettorale. Nessuno oggi può scommettere sulla sopravvivenza del governo Conte 2, o se arriva il Conte ter o se si va verso un esecutivo del tutto nuovo, magari del Presidente, istituzionale, di scopo. Neppure si può evitare di pensare di fare una puntata sull’ipotesi di andare ad elezioni anticipate. Qualche spiccio in più si può invece azzardare ad investire sull’arrivo di una nuova legge elettorale.

Se questo è vero, è evidente che il problema diventa quello del sistema che s’intende adottare. Angelo Panebianco, cui risponde Guido Guidi su queste pagine( CLICCA QUI ), ripropone quello maggioritario di cui l’autorevole editorialista de Il Corriere della Sera sembrava tempo fa essere giunto a riconoscerne l’esito fallimentare. Soprattutto perché non è riuscito a fare emergere quel fantasmagorico “centro” di cui tutti parlano, verso cui tutti s’affollano, ma per il quale, poi, per una serie infinite di ragioni, manca l’impegno nel superare particolarismi, personalismi e interessi di bottega.

Maggioritario e proporzionale, in realtà, richiamano non tanto e non solo le alchimie dei politologi e i calcoli di minor respiro fatti dagli apparati dei partiti. In realtà, raccontano due modi diversi d’immaginare il processo democratico e il diverso rilievo che s’intende dare alla governabilità o alla partecipazione. Richiamano persino una diversa visione culturale e sociale, il differente peso riconosciuto ai corpi sociali intermedi e alle specificità regionali; solo per citare i principali aspetti che definiscono il rapporto tra la politica e la realtà sociale e civile di cui essa dovrebbe essere l’emanazione.

Governabilità è un bel termine che indica, in effetti, la più prosaica gestione del potere, la scelta tra chi paga e quanto paga, la distribuzione del carico fiscale e la redistribuzione delle risorse. Il sistema elettorale maggioritario si è detto a lungo dover servire ad assicurare un margine in più di certezze per ciò che riguarda il processo decisionale. Come se poi non ci fosse il resto: leggi con testi incomprensibili e talvolta contraddittori, i loro decreti attuativi, la loro gestione vera affidata ad una struttura pubblica che fa riflettere spesso sulla propria efficienza.

Secondo i sostenitori di questo presupposto, avremmo dovuto sapere la sera stessa delle elezioni in che direzione si sarebbero incamminati gli italiani. Purtroppo, non è mai stato così negli ultimi 25 anni di quella che chiamiamo la Seconda repubblica rivelatasi, invece, una continuazione della Prima, ma con un sistema elettorale diverso, il bipolarismo “all’italiana”, con un impoverimento della qualità della classe politica e della tenuta delle istituzioni, con una radicalizzazione delle divisioni tra una parte e un’altra e tra un’area e un’altra.

Cosa particolarmente grave, su cui noi insistiamo da sempre, si è cronicizzata la divisione tra eletti ed elettori. Al punto che i parlamentari non rappresentano più il corpo elettorale che li ha eletti e meno che mai i territori in cui sono stati presentati perché manca con essi ogni relazione organica e strutturata e, salvo  rare lodevoli eccezioni, non ne rappresentano la voce.

Si portava a giustificazione del maggioritario la “favola” che i ripetuti cambi di governo nel corso della cosiddetta Prima repubblica avessero impedito la governabilità. Un dato che cozza con la realtà di quel che è stata l’esperienza storica, almeno dal 1945 agli anni ’80. Perché le frequenti crisi di governo di allora, di cui quelle aperte al buio, nel senso di non prefigurarne subito superamento e sbocco, sono state davvero poche, tipo quella del governo Tambroni del ’60 e di un altro paio nella stagione del Centrosinistra. Quei riequilibri governativi erano il frutto della necessità d’introdurre adattamenti che il vertice politico introduceva in relazione alle evoluzioni economiche e sociali proprie di una fase di grande crescita e di movimento dell’Italia.

Paradossalmente, i problemi sono esplosi quando, con la caduta del Muro di Berlino e la fine del comunismo, si è pensato che i grandi partiti popolari non avessero più alcuna ragione d’essere e che si potesse tornare in qualche modo alla politica espressione più di quelli che Maurice Duverger definiva i “partiti di quadri” e a un sistema sociale piramidale. Il risultato è sotto gli occhi di tutti.

La verità è che questa inutile ricerca ossessiva di una governabilità ottenuta non accettando e sollecitando la partecipazione attiva da parte di tutte le espressioni presenti nel corpo vivo della società, ma solamente utilizzando leggi elettorali destinate alla compressione del pluralismo culturale, sociale ed economico, ha finito per dividere il Paese e, dunque, per tarparne le ali.

Irrisolti i problemi di vertice, aumentata la litigiosità politica, tenuto in piedi forzosamente un bipolarismo che viene quotidianamente smentito. Da un centrodestra che resta insieme solo per mantenere in piedi un accordo elettorale, in particolare in ambito regionale e locale, da un centrosinistra divenuto solo una parte dello schieramento alternativo alla destra e dal fenomeno del “grillismo” che ha saputo raccogliere la denuncia senza essere in grado di offrire un’ipotesi di ricostruzione. Inevitabilmente, allora, si sono aggravate le questioni che riguardano il cosiddetto “paese reale” coinvolto nella liquefazione sociale, nell’impoverimento delle relazioni personali e di quelle afferenti i corpi sociali intermedi, nella perdita di potere d’acquisto e in una sostanziale incapacità di veder recepite le proprie autonome istanze.

Abbiamo dunque bisogno di un passaggio d’epoca che diventi soprattutto l’approdo su di una nuova “piattaforma” culturale ed antropologica per far trovare al Paese una rinnovata unità d’intenti che non significhi l’appiattimento su di un “ pensiero unico” o la scelta di un’unica opzione politica.

La società italiana, la struttura economica, l’impianto culturale pubblico condiviso deve trovare quello che va ben oltre la proclamazione della ricerca di un generico “Centro” non sostanziato da una progettualità effettiva. Si tratta di ciò che abbiamo già avuto modo di definire un “baricentro” in grado di assicurare un progressivo convergere sulle cose e , dunque, parte rilevante della costruzione di un’area più vasta e capace di far valere un diverso metodo di guardare ad una rinnovata scelta di libertà, di ragionevolezza e di sostenibilità. Al tempo stesso realistica, ma anche capace di suscitare quella passione e quel coinvolgimento costruttivo necessari ad un Paese che si trova davvero di fronte al bivio del proprio futuro.

Giancarlo Infante

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