“È più importante sapere che tipo di paziente ha una malattia, piuttosto che sapere che tipo di malattia ha un paziente”. Sir William Osler

Quando, entusiasti, commentavamo qualche anno fa la straordinaria iniziativa “Medicina di Precisione” di Barak Obama, convintamente sottolineavamo i benefici che, sulla salute umana, potevano derivare, oltre che dalle misurazioni in tempo reale della glicemia, della pressione arteriosa e del ritmo cardiaco, anche dalla definizione del genotipo esclusivo di un individuo o dalla determinazione delle cellule immunitarie disponibili, delle cellule cancerose eventualmente circolanti nel sangue periferico o del DNA tumorale.

E però ripensandoci, malgrado l’indiscutibile rilievo di quella apertura strategica affatto comune nel ceto politico ordinario, la prospettiva oggi, a 6 anni di distanza da quel 20 gennaio 2015, non può non essere ulteriormente ampliata: oltre la biologia, la fisiologia, la genetica, esiste un ambito vasto che include le circostanze personali di vita del paziente, l’ambiente nel quale egli vive ed opera, la situazione sociale, le caratteristiche della sua flora batterica intestinale e, perfino, la sua personalità. Così come è vero per la variabilità biologica, questi fattori, esclusivamente connessi alla persona ammalata, hanno un impatto decisivo sulla suscettibilità di quest’ultima alla malattia, su come la malattia si manifesterà fenotipicamente e sul modo in cui quella malattia – e l’individuo con la malattia – risponderà ai farmaci. Come dire, in altri termini, che l’influenza delle circostanze uniche della persona – il “Personoma” – deve essere considerato altrettanto potente quanto l’impatto del genoma, del proteoma, del farmacogenoma, del metaboloma o dell’epigenoma di quell’individuo.

In ragione della soggettiva, peculiare rilevanza dei fattori psicologici, sociali, culturali, comportamentali ed economici, Il suffisso “-oma” ovvero “-omica” va, dunque, esteso anche alla Persona, aggiunto al kit di strumenti della medicina cosiddetta “di precisione” ed usato per riferirsi alle circostanze di vita uniche dell’individuo. Sono gli eventi che possono condizionare la suscettibilità a contrarre la malattia, l’espressione clinica di quest’ultima ed il suo peso specifico sulla persona ammalata, oltre che il gradiente di risposta diverso, per ciascun paziente, alla terapia somministrata.

Si tratta di acquisizioni non più omissibili, che prefigurano molto più della declinazione di un astratto pensiero antropologico e che, pertanto, non possono né devono lasciare indifferenti soprattutto gli operatori sanitari ai vari livelli. Un commento di qualche anno fa sul New York Times discuteva i limiti della medicina di precisione senza la personomica. In quell’articolo c’era chi osservava che le varianti genetiche riescono a spiegare solo una minima parte delle ordinarie evoluzioni cliniche connesse all’insorgere e al progredire degli stati patologici, e che l’ambiente, la cultura e il comportamento individuale giocano un ruolo più che significativo nel rimodulare il rischio pure codificato dalla genetica.

E’ dunque necessario e, anzi, indispensabile che tutti gli stakeholders della sanità siano consapevoli delle opportunità che si associano ai nuovi scenari e che il personale addetto alla salute del “bisognoso/cittadino-paziente” possa avere a disposizione il tempo, l’opportunità e le risorse necessarie per padroneggiare la “personomica” e comprenderne ed apprezzarne l’importanza per la cura del paziente.

D’altro canto non è un mistero per nessuno che, mentre gli straordinari avanzamenti  scientifici della biomedicina hanno favorito la comprensione delle dinamiche che stanno alla base di tante e diverse malattie, molto spesso i medici si trovino ad affrontare sfide piuttosto impegnative per riuscire ad analizzare e comprendere i loro pazienti in qualità di “persone”. Le normative vigenti relative alle ore di servizio hanno ridotto, in una logica totalmente asservita ai parametri della mera produttività economica, la quantità di tempo che i sanitari possono dedicare all’inquadramento diretto delle persone ammalate che a loro si affidano. E, ancor più a monte, gli specializzandi di medicina interna oggi non di rado trascorrono più tempo al computer di quanto ne dedichino a fornire cure dirette al paziente spesso ricevendo, di quel paziente, un format elettronico molto prima di aver incontrato la persona reale in ambulatorio o nel letto d’ospedale. Tutto questo, ulteriormente addizionato della rilevanza vicaria attribuita alla diagnostica per immagini e a quella di laboratorio, ha finito per sminuire, fin quasi ad annullarla, l’importanza primaria dell’anamnesi, elemento prioritario nelle buone prassi della “medicina narrativa”. E’ come se gli aspetti sociali e psicologici siano diventati, oramai, molto meno importanti, per la cura dei pazienti, rispetto alle basi molecolari e genetiche di salute e malattia, e l’importanza di comprendere ciascun paziente nella sua qualità di persona venga ritenuta del tutto marginale rispetto alla corretta e completa impostazione della diagnosi e della terapia.

Sono limiti oggettivi sui quali forse bisognerebbe riflettere per cercare di associare, fin dalle fasi della formazione, allo studio della variabilità biologica, l’apporto delle scienze comportamentali e sociali ugualmente indispensabili nelle abilità di cura. Ed è una scommessa sulla quale da subito, forse, occorrerebbe puntare con determinazione convinta e condivisa.

Mauro Minelli

 

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