La crescita economica di ogni Paese rimane strettamente collegata all’andamento quantitativo e qualitativo della sua popolazione lavorativa. Da questo dipendono la soddisfazione dei fabbisogni della produzione, le premesse per un’equa distribuzione del valore aggiunto prodotto e i finanziamenti delle prestazioni sociali per la quota delle persone che a vario titolo non possono o non devono lavorare.

La capacità di rigenerare la popolazione attiva con una visione di lungo periodo, dato che questo obiettivo richiede anche un’ingente mole di investimenti formativi, rimane uno degli obiettivi primari delle politiche economiche. Come noto, nel nostro Paese tutto ciò non è avvenuto per l’assenza di adeguati sostegni per la natalità e per l’incapacità di relazionare gli investimenti formativi anche ai fabbisogni del mercato del lavoro. Le conseguenze negative hanno assunto livelli di rilevanza tali da mettere in discussione la sostenibilità futura degli investimenti produttivi e delle prestazioni sociali.

Per comprendere la gravità del problema è sufficiente analizzare le serie storiche relative all’evoluzione del mercato del lavoro a cavallo delle due più importanti crisi economiche degli anni 2000 tra il primo semestre del 2008, che precede l’avvento della crisi di origine finanziaria, e quello del 2022 che completa il recupero delle perdite occupazionali nel corso della pandemia Covid.

Al termine di questo lungo ciclo, il numero degli occupati risulta pressoché simile, poco più di 23 milioni, ma la mappa della popolazione attiva risulta completamente stravolta. L’aspetto più rilevante risulta la perdita di 1,711 milioni di giovani under 35 e di 1,113 milioni nella fascia tra i 35 e i 49 anni, compensata dalla crescita di 3,2 milioni di lavoratori con età superiore ai 50 anni. L’invecchiamento della popolazione occupata, legato principalmente agli effetti del declino della natalità a partire dagli anni ’80, risulta però aggravato dal crescente sottoutilizzo della quota dei giovani: il tasso di occupazione si riduce del 5,1% per la quota degli under 25 e del 4% per quella fino a 34 anni. Il mancato ricambio generazionale si riflette sulla tenuta complessiva della forza lavoro immediatamente successiva, quella fino ai 50 anni, dove il tasso di occupazione rimane sostanzialmente inalterato rispetto al 2008 nonostante le perdite occupazionali (-0,7%) per via della riduzione della specifica popolazione in età di lavoro.

La contrazione del ricambio generazionale, persino superiore alle dinamiche demografiche, è qualcosa di paradossale, dato che i fabbisogni di sostituzione della forza lavoro legati al pensionamento delle generazioni del baby boom risultano largamente superiori ai numeri delle nuove coorti di ingresso nel mercato del lavoro. Sul versante opposto, quello degli over 50, la crescita dell’occupazione è consistente (+15%) e di gran lunga superiore all’incremento della specifica forza lavoro (+2,4%) e del tasso di disoccupazione (+1,6%) che si mantiene al di sotto di 3 punti rispetto quello medio generale.

Le cause del divario sono essenzialmente dovute alla qualità delle politiche e dei comportamenti che sono all’origine del crescente divario tra la domanda e offerta di lavoro, rappresentato dalla difficoltà strutturale da parte delle imprese di reperire nel mercato del lavoro oltre il 40% dei fabbisogni professionali richiesti. E tutto questo avviene nel Paese che registra il più basso tasso di occupazione nell’Ue e a prescindere dall’andamento del ciclo economico.

La riserva disponibile di risorse umane inutilizzate o sottoutilizzate è rappresentata da oltre 3 milioni di giovani che non studiano e non lavorano (Neet), dal potenziale di almeno 3 milioni di donne disponibili a lavorare, da circa 1,4 milioni di persone occupate part-time che desiderano lavorare a tempo pieno, dall’allungamento dell’età pensionabile. Buona parte di questa riserva, a partire dai giovani “Neet”, non è dotata di percorsi formativi rilevanti, ma che in via teorica risultano comunque compatibili con molti dei profili richiesti dalle imprese. Il basso tasso di occupazione delle giovani generazioni è essenzialmente motivato dalla scarsa relazione tra i percorsi di orientamento e di formazione con quelli lavorativi. Il contributo delle forme duali (tirocinio, stage, apprendistato) risulta largamente al di sotto dei livelli di utilizzo realizzati negli altri Paesi europei. Una criticità che penalizza in particolare le professioni tecniche e specialistiche per i profili di elevata qualificazione (Stem) e quelli esecutivi che si completano con i percorsi di apprendimento negli ambiti lavorativi. Un vuoto che offre una spiegazione per una buona parte del mismatch tra la domanda e l’offerta di lavoro che risulta più elevata per le giovani generazioni.

Il numero dei giovani laureati è cresciuto nel periodo preso in considerazione, ma rimane in assoluto inferiore alla media dei Paesi Ue. I tempi di ingresso nel mercato del lavoro e le retribuzioni per i laureati e i diplomati risultano migliori rispetto alla media, e la frequentazione di stage e tirocini aumentano, secondo le indagini Almalaurea, le probabilità di impiego. Ma nonostante queste evidenze, anziché implementare la quantità e la qualità dei percorsi duali, l’orientamento prevalente delle politiche del lavoro rimane contrassegnato da un’ostilità verso queste forme di inserimento lavorativo.

La tenuta del mercato del lavoro degli over 50 si dimostra più solida della narrazione nazionale, che invoca i pensionamenti anticipati come risposta ai problemi di occupabilità dei lavoratori anziani. A beneficiare degli anticipi di pensione risultano essere principalmente i lavoratori con solide carriere lavorative, mentre nel complesso dei settori ad alta intensità di lavoro (agricoltura, costruzioni, servizi alle persone e per il mercato) l’uscita dei lavoratori anziani italiani viene compensata, per la quasi totalità, da persone immigrate.

Nel periodo preso in considerazione, i numeri parlano chiaro: oltre 800 mila immigrati in più (1,3 milioni considerando la quota degli stranieri che hanno ottenuto nel frattempo la cittadinanza italiana) che compensano l’analoga riduzione degli occupati autoctoni. Nel frattempo i livelli di sostenibilità dei percorsi di integrazione vengono messi in seria discussione dalle condizioni di povertà assoluta o relativa che riguardano i due terzi della popolazione straniera residente e causati dalla riduzione di 10 punti del tasso di occupazione e dalle condizioni di lavoro di circa 1,5 milioni di occupati stranieri che convivono in modo permanente con i circuiti del lavoro sommerso.

Il contributo della crescita della produttività alla sostenibilità del sistema economico e sociale è stato marginale. Addirittura negativo, per via dei bassi livelli di investimento, in molti comparti dei servizi ad alta intensità di occupazione. Infatti, la componente del lavoro sommerso, i lavoratori sotto remunerati, in particolare immigrati, e le prestazioni lavorative non dichiarate (compresi i doppi o tripli lavori e il 70% delle prestazioni dei lavori autonomi), rimangono una condizione di sostenibilità per la redditività di interi settori e dei costi dei servizi per le famiglie. Infatti, la stagnazione della produttività e dei salari reali è la caratteristica costante degli anni 2000.

Le tendenze reali descrivono le singolari caratteristiche del modello italiano, il declino quantitativo e qualitativo della popolazione in età di lavoro e di quella attiva reso sostenibile da: un aumento dei lavoratori immigrati, dal lavoro sommerso, da una tenuta dell’occupazione legata all’espansione dei settori ad alta intensità di occupazione con bassa produttività e bassi salari, dall’aumento della quota dei lavoratori anziani. Per motivi facilmente comprensibili, questi ultimi rimangono fortemente ostili all’allungamento dell’età pensionabile (nonostante la legge Fornero l’aumento degli over 65 rimane contenuto: +350 mila). Nel frattempo la tenuta del reddito delle persone anziane, ampiamente documentata nelle statistiche Istat e Banca d’Italia, è diventata nei fatti il veicolo per finanziare lo stile di vita di una parte consistente delle giovani generazioni.

In assenza di una crescita sostenuta del tasso di occupazione, degli investimenti e della produttività, una componente essenziale della sostenibilità del modello è diventata la spesa pubblica per le finalità assistenziali estese alla tutela dei redditi in costanza di lavoro (bonus salariali, sgravi contributivi sulle nuove assunzioni e sul cuneo fiscale, casse integrazioni generalizzate), o di quelli in assenza di lavoro (indennità di disoccupazione, redditi di cittadinanza, pensionamenti anticipati). Tutte misure più o meno giustificate, ma che vanno nella direzione opposta alle esigenze del sistema produttivo e del mercato del lavoro.

Ma le condizioni per perpetuare questo equilibrio si stanno esaurendo. Non solo per l’evidente accelerazione della riduzione delle persone in età di lavoro e del contemporaneo aumento del numero dei pensionati e delle persone non autosufficienti. Nelle attuali condizioni il “mismatch” tra la domanda e offerta di lavoro può comportare la rinuncia a scelte di investimento. La bassa produttività risulta incompatibile con la capacità di assorbimento delle dinamiche dei prezzi importati. Diventa impraticabile sommare gli aumenti della spesa pubblica indispensabile per reggere l’incremento delle prestazioni pensionistiche, sanitarie e assistenziali, relazionate all’invecchiamento della popolazione, con gli oneri per sostenere i salari e i sussidi.

I numeri dicono questo, anche se le proposte politiche sul tappeto sembrano andare in un’altra direzione.

Natale Forlani

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