Il virus ci ha giocati d’ anticipo o meglio ha punito la nostra inerzia. La crisi del 2008 – non ieri l’altro – aveva già chiaramente segnalato come fossimo giunti al capolinea di un sistema economico-finanziario ormai esausto.

Anziché recepire il messaggio e comprendere l’urgenza di un cambio radicale di “sistema”, abbiamo nicchiato, traccheggiando tra un’analisi e l’altra, sostanzialmente illusi di poter restaurare al meglio il vecchio apparato o almeno cercando di dividere in due tempi la svolta: prima ricostruire il vecchio arnese e poi, se mai, mutare indirizzo. Siamo rimasti in surplace, laddove ci voleva un colpo di reni che nessuno ha voluto dare.

In fondo, tracciare percorsi inediti in territori inesplorati implica pur sempre rischi, genera ansie ed inquietudini che si cerca di schivare, provando a rintanarsi nella vecchia nicchia scomoda, ma pur sempre conosciuta e dunque protettiva, per quanto se ne sia stati violentemente sbalzati fuori.

Intanto, coltivata a bagnomaria, la crisi, da finanziaria, è diventata sociale, politica ed istituzionale. Si è schiantata pesantemente soprattutto sulle condizioni di vita – e di effettiva libertà – delle classi più umili, creando inaccettabili condizioni di disparità sociale; ha generato demagogia e populismi sovranisti anti-storici; ha compromesso l’ equilibrio dei rapporti istituzionali provocando ora lacerazioni, ora sovrapposizioni di potere improprie e confusive.

Ora ci risiamo. Anzi peggio. Non si tratta più di interpretare, ma di prendere atto che la pandemia ha fatto “tabula rasa” di strutture, linee di pensiero, indirizzi operativi, consuetudini e concetti, riaprendo una partita che ci dobbiamo giocare da capo e non sappiamo esattamente dove ci condurrà.

Eppure rischiamo di sbagliare ancora. D’accordo: cambiare, trasformare. Ma esattamente che cosa? O meglio, cominciando da dove? Il capo della matassa da tener bene in mano per cominciare a dipanarne l’intreccio dove sta?

Se guardiamo all’esperienza vissuta dal nostro Paese, in particolare al gioco a mosca cieca “apri tu che chiudo io” che le Regioni si rimpallano tra loro e con il Governo in questi giorni, vien subito da dire quanto sia necessario porre mano al ripensamento dell’impalcatura dello Stato ed al ridisegno delle relazioni che corrono tra tutti i livelli istituzionali da quello europeo, a quello nazionale, fino  a Regioni ed Enti Locali che concorrono a disegnare il contesto normativo in cui prende forma la nostra vita civile e democratica.

A parte la vita ordinaria, quella cui un giorno pur torneremo e già di per sé esigente di ordine e di chiarezza, ce la sentiamo di esporci, quando potesse ancora succedere, ad una valanga travolgente come l’attuale pandemia, affidandoci ad una struttura dei pubblici poteri che, oltre a presentare  criticità preoccupanti, appare così vulnerabile dagli interventi a gamba tesa di una politica che, pur di metterlo all’incasso elettorale, non rispetta  quel patto di lealtà costituzionale che pur le istituzioni, come tali, dovrebbero comunque osservare, al di là  dei rispettivi colori politici? Dobbiamo apprestare per tempo qualcosa di più robusto.

Se proviamo ad elencare capitoli, temi ed argomenti, possibili spazi di lavoro di questo ideale cantiere ci accorgiamo che si tratta di materiali abbondantemente apprestati e messi in opera, anzitutto, secondo i canoni della cultura cattolico-democratica. Una costruzione originariamente solida si è via via appesantita e troppi bulloni si sono nel tempo allentati, altri giunti arrugginiti; insomma l’impalcatura traballa pericolosamente.

Non varrebbe la pena che siano ancora una volta i cattolici democratici e popolari a preoccuparsi del necessario restauro o meglio ancora ad allestire anche le innovazioni di progetto dove si rendessero necessarie?

Non si tratta di immaginare fughe in avanti, strappi costituzionali, soluzioni più d’immagine che di sostanza, ma semplicemente di arieggiare gli ambienti, abbattere il tasso di burocratizzazione, rivitalizzare gli organi centrali dello Stato, ridare vigore alla responsabilità di chi opera nella pubblica amministrazione, rivisitare il ruolo dei corpi intermedi e delle autonomie funzionali, valorizzare l’apporto del Terzo Settore, rilanciare il ruolo degli enti locali e delle grandi conurbazioni metropolitane in un regionalismo rivisitato, ridare autorevolezza, capacità di programmazione, di coordinamento e di indirizzo allo Stato in settori essenziali e strategici, cominciando, ad esempio, dalla sanità.

Siamo nel campo delle regole, quindi su un terreno che compete a tutte le forze parlamentari a prescindere da maggioranze ed opposizioni. Dunque, una materia da ascrivere piuttosto che al Governo, alla competenza, appunto, del Parlamento che, in una democrazia rappresentativa non è il passacarte del Governo, bensì gode di una funzionalità e di una autorevolezza che gli derivano direttamente dalla sovranità popolare.

Ci sono, tra Palazzo Madama e Montecitorio, cattolici che, pur giustamente rispettosi delle rispettive appartenenze – asseverate, del resto, da un consenso popolare ottenuto sulla base di piattaforme politico-partitiche puntuali e ben definite – avvertono come, oggi, sia forse giunto finalmente il momento di far prevalere la comune appartenenza culturale rispetto a dislocazioni politiche che mai, nella contrapposizione delle parti, hanno consentito – al di là di tante pie intenzioni – di dare compiuta ed efficace espressione a questa comune vocazione ideale, fortemente connessa a quel credo religioso di cui sicuramente ciascuno di loro vanta il ruolo e l’efficacia anche sulla scena pubblica?

I cattolici: coloro che si sono raccolti attorno al Manifesto di Politica Insieme sono soltanto un piccolo “resto”, eppure stanno dando vita ad un’esperienza che, per quanto embrionale e modesta, dimostra come vi sia un “attrattore” che via via aggrega, tiene nel tempo, progressivamente esprime una coerenza ed un indirizzo.

Forse, niente più che un esperimento in provetta, eppure significativo del fatto che la diaspora non è una via né obbligata né ineluttabile.

Ci è lecito, senza voler insegnare niente a nessuno, avanzare sommessamente un invito ai parlamentari cattolici di ogni appartenenza a prendere in carico congiuntamente, al di là dei rispettivi schieramenti, i temi di cui sopra ?

Senza abiure, giochi a scavalco o transumanze che – a parte la forma e soprattutto la legittimità sostanziale di tali comportamenti – rendano ancora più problematico e confuso il quadro politico, ma con la franchezza necessaria a riprendere ed attualizzare un indirizzo di pensiero e di elaborazione in cui ogni cattolico può del tutto legittimamente riconoscersi.

È’ possibile, del tutto liberamente, aprire un tavolo con chi ci sta e mettere in campo pure, sul piano del metodo, una sorta di prova sperimentale di un percorso auspicabilmente nuovo?

Domenico Galbiati

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