Ha senso affrontare un tema delicato come la messa in latino su un media politico? Trattandosi di un partito di ispirazione cattolica, l’argomento è pertinente, poiché attiene alla natura del proprio vissuto e della propria fede, quindi del proprio modo di essere in politica che non esclude certo il dibattito all’interno del mondo cattolico. Trovo che permanga nella Chiesa una visione di potere, che ha bisogno di simboli per essere affermata (messa in latino), anziché  una di servizio. Questo è quanto ci scrive l’autore inviandoci l’articolo che segue. 

La protesta sulle limitazioni introdotte dal pontefice sull’uso della messa in latino pone un problema molto più serio di quello che in apparenza sembra. Non è un confronto tra ‘conservatori’ e ‘progressisti’ all’interno della Chiesa cattolica, ma, più sottilmente, tra ritualismo e azione dinamica della liturgia, ossia attualizzazione del memoriale come fattore fondante e fondamentale della vita cristiana.

Il ritualismo è un aspetto deteriore del vissuto cristiano poiché porta a cristallizzare il contenuto della fede in formule, in suoni, in gesti la cui natura non hanno più quel senso originario, non perché edulcorati, ma semplicemente perché resi sterili dal tempo. Ci sono formule che non hanno più senso semplicemente perché superati dall’approfondimento teologico della dottrina. Per esempio, quella formula relativa ‘ai perfidi ebrei’ nella preghiera del Venerdì Santo. Ma di esempi potrebbero essercene molti altri.

Si riflette poco, a mio avviso, sul fatto che Cristo è venuto a completare la legge, non ad annullarla, ma quel completamento ha comportato una profonda revisione del ritualismo, della normatività in cui era stata ridotta.

Per quanto non lo si voglia ammettere, il problema, tuttavia, è molto più semplice: c’è una fetta di cattolici che non ha mai digerito il Concilio Vaticano II. Digerirlo non era obbligatorio, ma occorre osservare che nella storia della Chiesa ogni concilio ha trascinato dietro di sé una qualche forma di protesta e di scisma. Non si deve però dimenticare che il Concilio è un atto di tutta la Chiesa, mette insieme tutti i vescovi del mondo, è l’espressione massima della sinodalità e della cattolicità. Fomentare l’idea che le decisioni del Concilio non siano coerenti con il proprio modo di sentire, significa semplicemente porsi in un atteggiamento di opposizione alla Chiesa stessa.

Veniamo, quindi, all’azione dinamica della liturgia. Definizione teologicamente e scientificamente molto imprecisa ma efficace nel sottolineare che non si tratta di un momento estatico, ma di una riflessione sul proprio vissuto, provato da problemi quotidiani, per ritrovare nella fede la forza per affrontarli in un’ottica evangelica. Una liturgia che riesce a portare nella vita questo dinamismo, rende la fede viva, non un atto sterile, ma un confronto costante con Dio. Di una liturgia di questa natura ha bisogno il popolo di Dio. E necessariamente è una liturgia che deve parlare la lingua degli uomini, quella del sagrato. Non si dimentichi che il primo dono dello Spirito Santo nella Pentecoste è stato proprio quello delle lingue. “A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua.  Erano stupiti e fuori di sé per la meraviglia, dicevano: ‘Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei?’[At., 6-7].

Mario Pomilio ne ‘Il Quinto evangelio’ scrive che “abbiamo troppo oscillato tra il Dio come distanza e il Dio come connivenza, il Dio che prescrive dall’alto d’un potere imperscrutabile il Dio conoscibile solo nelle zone introverse del privato, dimenticandoci che egli si fa presente unicamente attraverso la nostra testimonianza…Iddio ci ha parlato una volta per tutte, attraverso i Vangeli. Per il resto, occorre sentire la persistenza del suo silenzio come un mutismo deliberato. O, più verosimilmente, come una delega permanente della Parola. Spetta a noi ora parlare di lui, e se possibile in nome suo. Lo spazio della nostra libertà è in questa scelta: tra la rassegnazione definitiva al suo silenzio e il bisogno d’infrangerlo colmandolo con la nostra voce”.  E la voce non è una lingua antica, ma quella di tutti i giorni, una lingua di relazione compresa da tutti. Una liturgia che non ha la voce di tutti i giorni, è cristallizzata nel passato, rischia di non parlare più di Dio, ma asseconda il desiderio di chi non ha compreso che il silenzio va infranto con la propria voce.

Pasquale Pellegrini

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