La decisione della Corte Costituzionale relativa al “caso Cappato” (per ora anticipata – come da prassi – con un breve comunicato stampa) ha come oggetto lo scrutinio di costituzionalità dell’art. 580 c.p. (aiuto al suicidio) e riguarda, nell’orizzonte giuridico, l’interdipendenza di fattori oggettivi (scienza, vita biologica, salute umana) e soggettivi (libertà, autodeterminazione, dignità).

La Consulta ritiene non punibile ex art. 580 c.p. «chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli».

Al fine di comprendere appieno l’itinerario argomentativo della decisione, ampiamente anticipato nell’ordinanza n. 207/2018 ed in attesa della pubblicazione della sentenza definitiva, occorre volgere brevemente lo sguardo sul percorso giurisprudenziale antecedente all’approvazione della l. n.  219 del 2017 sul consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento, testo normativo da cui prende le mosse il ragionamento della Consulta.

I casi che hanno diviso l’opinione pubblica italiana sono noti.

Il “caso Englaro” ruotava attorno a due questioni principali.

Da un lato, un paziente incapace di esprimere il consenso per l’eventuale interruzione di un presidio sanitario; dall’altro lato, la concezione che idratazione e alimentazione, ove veicolati con un sondino naso-gastrico, siano configurabili come “trattamenti sanitari”, cosicché – su richiesta del paziente – possano, anzi, “debbano” essere interrotte.

All’interno di tale duplice valutazione si situa il cuore di quella decisione che poi è giunta fino alla prima sezione della Cassazione.

Il thema decidendum riguardava se si può esigere il distacco definitivo del presidio che facilita la somministrazione dei liquidi nutrizionali, in attuazione della libertà del paziente di rifiutare/rinunziare qualsiasi proposta di terapia. Libertà, il cui esercizio, nel caso specifico, si sarebbe evinto da una serie di elementi presuntivi, di tale spessore da ricavarne una sorta di “manifestazione anticipata volontà”.

In punto di rifiuto (ma non di interruzione del presidio sanitario), la giurisprudenza, ha da lungo tempo preso atto di tale libertà pressoché assoluta, purché espressa personalmente e nella contestualità della proposta terapeutica. E ciò anche in casi moralmente problematici come, per esempio, la motivazione estetica rispetto ad un intervento salvavita. Su questo profilo vi è accordo generale e condiviso.

Più complessa è, invece, la vicenda di un presidio sanitario che sia già in esecuzione, soprattutto poiché in tale situazione la richiesta interruttiva implica l’intervento di un soggetto terzo, che comporta quale conseguenza immediata la morte del paziente, così rilevando il problema relativo alla responsabilità di chi interrompe il trattamento.

Nel caso Englaro, il tutore (che era anche il padre della paziente) reclamava che il presidio fosse interrotto, sulla scorta di un “presunto” atto di volontà (“autodeterminazione”) manifestato in passato dalla giovane donna, ricavabile da una serie di ricostruzioni storiche, di testimonianze, di ricordi, di manifestazioni di “stili di vita”. La legittimità di tale richiesta veniva confermata dalla prima sezione di Cassazione (mentre, poi, neanche un anno dopo, la Terza Sezione, in un altro caso, ha richiesto che il consenso e, dunque, l’eventuale dissenso alla somministrazione di un trattamento salvavita debba necessariamente essere oggetto di una “manifestazione espressa, inequivoca, attuale, informata“).

Oggi, a legge 219 vigente, un caso del genere non avrebbe il medesimo esito, poiché la normativa esige che il biotestamento assuma necessariamente carattere formale.

Nella vicenda Englaro, inoltre, come detto, il contenuto del “biotestamento presunto” riguardava l’interruzione della somministrazione di liquidi nutrizionali, qualificati dalla giurisprudenza del caso come trattamenti sanitari.

Sulla scorta di questi esiti giurisprudenziali, sono stati proposti diversi disegni di legge, di cui il più importante è stato il disegno di legge Calabrò, che, diversamente da quanto deciso nel caso Englaro, qualificava le somministrazioni di alimentazione e idratazione «forme di sostegno vitale e fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze», di talché non possono formare oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento.

Altro caso che aveva diviso l’Italia era stata la vicenda di Piergiorgio Welby, nella quale, invece, il paziente era pienamente cosciente cosicché il dissenso relativo al trattamento in corso di ventilazione meccanica era noto, pubblicamente acclarato persino con una lettera al Capo dello Stato.

Il tema di fondo è, in tale circostanza, il passaggio dal rifiuto di una terapia che viene proposta, all’insopportabilità sopraggiunta della medesima, la cui interruzione presupponga l’intervento di un soggetto terzo rispetto al paziente. Ecco perché il caso avrebbe potuto integrare la fattispecie di reato ex art. 579 c.p. (omicidio del consenziente). Tuttavia il comportamento dell’anestesista che aveva operato il trattamento interruttivo (sedazione e interruzione della ventilazione meccanica), pur configurato nell’art. 579 c.p., non appariva perseguibile in quanto comportamento “doveroso” per dare attuazione al diritto costituzionalmente tutelato del paziente di interrompere il trattamento.

Anche su questa vicenda, la legge 219/2017 mette un punto fermo, poiché tratta, in modo sostanzialmente equivalente, tanto il rifiuto quanto la rinuncia successiva del trattamento sanitario.

Il tema dischiude la riflessione su un’altra categoria del diritto sanitario, strettamente collegata ai casi in cui la tecnologia diventi fortemente invasiva: l’accanimento terapeutico. Situazione che non era stata riscontrata dalla giurisprudenza del caso Welby, non perché Piergiorgio Welby non avvertisse la ventilazione meccanica come una forma di “accanimento” sul suo corpo, ma per evitare che la possibilità di interrompere un presidio salvavita per la respirazione legittimasse un protocollo sanitario generalizzato tale da scivolare, in altri casi analoghi, in prassi di abbandono terapeutico, specie se riguardanti soggetti incapaci di agire. Ricordo che la configurazione di un trattamento come “accanimento terapeutico” impone – come ci indicano i codici deontologici della categoria e ora la stessa legge 219 – la desistenza medico-sanitaria. Anche per questa ragione, la giurisprudenza dell’epoca, saggiamente, non ha qualificato né la vicenda Englaro, né la vicenda Welby come casi di accanimento terapeutico.

Ora, nella vicenda di Fabiano Antoniani (dj Fabo) e il conseguente caso giudiziario Cappato, da cui origina la sentenza della Corte costituzionale, si verifica ciò che può essere definito un vero e proprio salto di qualità.

La legge n. 219 del 2017 consente al paziente il rifiuto e l’interruzione di qualsiasi trattamento, compresa la somministrazione di liquidi nutrizionali. In tali casi, si prescrive la necessità che sia “sempre garantita un’appropriata terapia del dolore” anche con la palliazione (art. 2.1 l. n. 219 del 2017).

La Consulta, nell’ordinanza n. 207 del 2018, ora invita a porre attenzione ad un ulteriore spatium cogitandi, sollecitando la riflessione sulla circostanza per cui nel momento in cui la legge 219/2017 legittima la logica del rifiuto e anche dell’interruzione finanche di presidi di sostegno vitale, ne consegue che la normativa oggi vigente non riguardi soltanto la fase del c.d. “fine vita”, che postula per definizione che ci si trovi nell’imminenza o in prossimità della morte, ma tollera che situazioni di non accettazione della propria condizione di vita – come la tetraplegia e la cecità del dj Fabo – possano condurre a forme di abbandono volontario che inevitabilmente sfoceranno, con l’interruzione degli strumenti di sostegno vitale, in una fase di fine vita. Si tratta di un passaggio normativo cruciale relativo ad una situazione che, pur non essendo considerabile di fine vita, lo diventa nel momento in cui si interrompono i presidi che veicolano in primis liquidi nutrizionali.

Il tema che pone la Corte – risolvendolo positivamente nel testo dell’ordinanza anticipatoria – è che in tali casi il processo di indebolimento delle funzioni organiche il cui esito, non necessariamente rapido, è la morte, non possa risolversi soltanto nella somministrazione delle necessarie cure palliative, di talché si «costringe il paziente a subire un processo più lento, in ipotesi meno corrispondente alla propria visione della dignità nel morire e più carico di sofferenze per le persone che gli sono care» (testo dell’ordinanza n. 207 del 2018). Di qui la diversa prospettiva di una richiesta di accelerazione dell’esito esiziale con «la somministrazione di un farmaco atto a provocare rapidamente la morte».

Il Comunicato aggiunge ora che «in attesa di un indispensabile intervento del legislatore» viene subordinata la non punibilità «al rispetto delle modalità previste dalla normativa sul consenso informato, sulle cure palliative e sulla sedazione profonda continua (artt. 1 e l. n. 219 del 2017) e alla verifica sia delle condizioni richieste che delle modalità di esecuzione da parte di una struttura pubblica del SSN, sentito il parere del comitato etico territorialmente competente». Si tratta di rimandi legislativi delicatissimi che direttamente o indirettamente si legano al ruolo di garanzia del medico e ai possibili effetti sulle prassi assistenziali del sistema sanitario italiano.

Rispetto al primo profilo, l’articolo 1 comma 6 della l. 219/2017 stabilisce che il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario, quindi anche idratazione e alimentazione, o di rinunciare al medesimo (come detto, gli istituti giuridici del rifiuto e della rinuncia sono posti sullo stesso piano). In conseguenza di ciò il medico è esente da responsabilità civile e penale, dunque anche in riferimento alla fattispecie contemplata dall’articolo 580 c.p., il sanitario non sarà responsabile nei limiti in cui interrompa un trattamento salvavita (scriminato proprio dalla l. n. 219 del 2017), ma non ponga in essere un comportamento attivo per provocare la morte.

Il paziente, si aggiunge, non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale e alle buone pratiche clinico-assistenziali.

La Corte costituzionale, nell’ordinanza n. 207, lasciava trasparire la possibilità di prevedere eventualmente l’obiezione di coscienza. Il tema è cruciale e per certi versi anche una mera previsione di tale portata può risultare riduttiva in quanto il diritto all’obiezione riguarda il singolo medico e non un’intera categoria, tributaria della propria missione di curare, principio cardine della professione sanitaria. Si tratta di un punto assai critico – anche in ipotesi de iure condendo – poiché vengono in rilievo i capisaldi appartenenti alla pratica plurimillenaria della pratica medica, risalenti al giuramento di Ippocrate e confermati fino al codice di deontologia attuale, che vieta, anche su richiesta del paziente, di effettuare o favorire atti finalizzati a provocarne la morte. Divieto radicato nell’ethos della professione medico-sanitaria. Non è un caso che la Federazione degli ordini dei Medici (Fnomceo) abbia dichiarato che essi non potranno essere coinvolti in pratiche di assistenza al suicidio del paziente che ne faccia richiesta.

Anche l’altro richiamo della legge n. 219 al limite delle c.d. buone pratiche clinico-assistenziali (che escludono i trattamenti finalizzati alla morte del paziente) pone una barriera protettiva all’autonomia del medico e alle garanzie orientate alla cura dell’intero sistema sanitario.

Ci sarà, dunque, una fatica particolare nell’identificare gli eventuali soggetti cui spetterà il compito di prestare assistenza nella somministrazione di un farmaco letale, secondo quanto sta chiedendo sostanzialmente la Corte.

Ora occorre chiedersi se l’intervento demolitorio della Corte sull’art. 580 c.p., nei limiti della non punibilità della condotta che integri la fattispecie puntualmente definita, debba o meno riflettersi sulla l.n. 219 del 2017, incardinata nella sua ratio e nelle sue specifiche disposizioni sulla relazione fiduciaria medico-paziente. L’innesto su di essa di una richiesta interruttiva della vita, assecondata dal medico e, poi, coadiuvata dallo stesso è punctum dolens, all’apparenza non armonizzabile in una legge che nella sua interezza pone allo stesso livello le due autonomie del paziente e del medico curante, in un delicatissimo equilibrio contemperato fino al dovere estremo da parte del medico di accettare l’abbandono delle cure da parte del paziente e l’attivazione di protocolli stringenti di accudimento palliativo, così mantenendo intatta, dentro l’obiettivo del lenimento del dolore, la missione della pratica sanitaria.

L’inquadramento dell’estrema libertà suicida in una pretesa giuridica disegnerebbe una “nuova” prospettiva esiziale i cui possibili esiti reclamano cautela e prudenza, potendo trovare terreno fertile proprio nelle situazioni esistenziali di fragilità tipica di chi versa in condizioni di malattia. Di questo se ne rende conto anche la Consulta, che nel pur breve comunicato, specifica che proprio il rinvio a «specifiche condizioni e modalità procedimentali, desunte da norme già presenti nell’ordinamento, si è resa necessaria per evitare rischi di abuso nei confronti di persone specialmente vulnerabili».

Del resto, non può tacersi che l’ampliamento delle maglie ordinamentali sulle scelte estreme nel fine vita permea la lettura sociale di vicende umane che, nella dimensione di vulnerabilità, risultano estremamente fragili. Sarebbe irreparabile, in altri termini, alterare la percezione del significato reale della dignità delle persone che incarnano patologie irreversibili disgiungendole progressivamente dal doveroso principio del favor vitae su cui si fonda l’attuale orizzonte di garanzia e di cura del sistema sanitario e delle reti socio-assistenziali italiane.

Soprattutto per questa ragione, dovrà scongiurarsi che l’esito applicativo dell’apertura della Corte incida anche indirettamente sulla prospettiva sociale, e non già soltanto individuale, su cosa debba intendersi per “vita”, se nella sua qualità “percepita” o come archetipodi un “valore giuridico in sé” come correttamente ha sempre ritenuto anche la nostra giurisprudenza di legittimità. Tema non indifferente al modello più “efficiente” di allocazione delle risorse tipicamente scarse del nostro sistema sanitario, la cui missione indefettibile di tutela della salute dei consociati non tollera l’erosione del dettato costituzionale che garantisce la cura gratuita anche ai soggetti ritenuti “inguaribili” perché affetti da patologie irreversibili.

Alberto Gambino

 

Pubblicato su www.giustiziacivile.com

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