Un carissimo amico di Sesto San Giovanni – l’ex “Stalingrado d’Italia”, finita in mano ai leghisti – uno dei primi impegnati in INSIEME, “politicamente dotato”, cioè davvero capace di leggere gli eventi e “pensare” in termini politici, scrive sulla chat di “Insieme Lombardia” e si chiede, e ci chiede, “per chissà quale pudore” nessuno ricordi mai che Cina e Putin sono marxisti. Ed è, in effetti, così.

Una chiave di lettura di ciò che sta avvenendo la si trova sicuramente nello scontro tra “democrazie” ed “autocrazie”.
Senonché, anche chi fa questa analisi, fa risalire – a ragione, del resto – questa condizione di assenza, anzi di disprezzo di ogni elementare forma di democrazia, al millenario tradizionale “dispotismo” asiatico, storicamente consolidato, elemento costitutivo e consono ad una cultura “altra” rispetto a quella, diciamo pure, “occidentale”.

La nostra cultura è fondata sulle tradizioni giudaica e greco-romana, ricomposte e portate all’apice della loro potenzialità “umanistica” in quanto fecondate dalla superiore visione “trascendente” del cristianesimo, cui, peraltro, a loro volta, hanno fornito strumenti concettuali che, si potrebbe dire, ci hanno aiutato a pensare l’impensabile. Ci si rifà al regime degli zar da una parte, all’ “Impero celeste” dall’altra e si opera una sorta di by-pass che, da ambedue queste forme arcaiche di assolutismo, arriva ai giorni nostri. Senza far mente locale al fatto che, dalla “rivoluzione d’ottobre” all’89 in Unione Sovietica, dalla “lunga marcia di Mao” ai giorni nostri in Cina, la forma leninista del marxismo, tradotta sul piano politico in termini di “comunismo realizzato”, ha calzato perfettamente, come un guanto, questa vocazione dispotica ed imperialista. Secondo una connessione strutturale e necessaria tra questi due termini che non è né smentita né corretta dalla declinazione, se così si può dire, in salsa “capitalista” del regime cinese, che  s’inerpica sulla parete impervia di un ibrido storico alla lunga insostenibile.

Anzi, il “dispotismo”, spesso accompagnato dalla ferocia disumana in cui tali regimi decadono, è stato assunto come lessico e grammatica del comunismo. Su queste pagine è già stata denunciata la continuità tra Budapest ‘56, Praga ‘68 e Kiev ‘22. Ma perché – si chiede giustamente Gaetano, l’amico di sesto San Giovanni- perché tanto pudore. Non è forse un po’ come se, da noi stessi, ci imponessimo una sorta di censura?  Difficile dirlo. Eppure è una domanda che va posta, se non altro per mettere in chiaro tutti i profili della condizione drammatica, cui l’invasione russa dell’Ucraina sta esponendo l’ insieme, su scala mondiale, delle relazioni internazionali.

C’è la preoccupazione – forse doverosa, eppure la schiettezza non è mai fuori luogo, anzi – di non risvegliare fantasmi per una sorta di benevolo perbenismo e soprattutto per non alterare il clima di un “fronte interno” che, mai come oggi, dev’essere compatto? Ma c’è anche quel tanto di incultura politica che – sull’onda di una stucchevole narrazione “nuovista” – c’impedisce di cogliere come i cicli della storia, le culture politiche che li accompagnano, soprattutto se si ossificano in forma ideologica, sono, si potrebbe dire, delle comete che, quando solcano i cieli del nostro universo mentale, anzi perfino sul piano della stessa fattualità degli eventi, passano sì oltre, eppure trascinano con sé una coda che solo via via si assottiglia ed, anzi, talvolta, anziché disperdersi nell’immensità del cosmo, disegnano un’orbita e, sia pure, sotto mutate spoglie, almeno per certi aspetti, rischiano di riproporsi.

Ad ogni modo, come più di un amico ha scritto sulle pagine di “Politica Insieme”, soprattutto se vogliamo capire la possibile evoluzione a medio-lungo termine della fase che prende avvio dalla crisi ucraina, dobbiamo osservare attentamente cosa succede nel duopolio russo-cinese.

Domenico Galbiati

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