“……un eventuale aumento del numero di morti volontarie assistite va visto come un “salire alla vetta”. Magari “…..prendendo in considerazione l’esperienza del Belgio, che….potrebbe meritare attenzione”. E’ la raggelante – e patetica – conclusione cui giunge un noto esperto di bioetica in un lavoro dedicato a criticare la recente presa di posizione di Padre Casalone, in ordine alla Proposta di Legge che prende le mosse dalla sentenza 242/19 della Corte Costituzionale, in merito all’aiuto al suicidio assistito.

Qui sì che entriamo nel girone di un pensiero “infernale”, per mutuare, dallo stesso autore, un concetto che dispensa a piene mani, in riferimento al cosiddetto “fine-vita”. Inteso come un “bagnasciuga”, come viene espressamente definito. Una sorta di terra di nessuno che verrebbe generata da una potenzialità della tecnica che giunge ad interporre, tra la vita e la morte, lo spazio ed il tempo di un “tertium” finora “non datur”, un limbo sospeso sul vuoto.
Si potrebbe dire, ancora una vita, ma atta solo a sperimentare e vivere la morte. Cosicché sarebbe, dunque, non più degna d’essere vissuta. Il “bene comune possibile” non sarebbe più, quindi, la difesa della vita, secondo la concezione “sacrale” propria di una tradizione culturale che non appartiene solo ai credenti, bensì la morte procurata per sfuggire alla condizione, appunto, “infernale” del fine-vita. Da qui conseguono intanto due considerazioni, in ordine ad una tematica complessa su cui si renderà necessario tornare in più occasioni.

Cominciando dal dare conto dell’ ampia e importante riflessione che, giovedì’ sera, gli amici di INSIEME hanno sviluppato in dialogo con il Prof. Luciano Eusebi, sulla scorta della sua puntuale relazione introduttiva, condotta con tale raro impegno da dovergliene essere, a maggior ragione, grati. Siamo, anzitutto, di fronte ad un “salto antropologico”, un rovesciamento di fronte che concepisce la vita come un’opportunità, capitata chissà come, da spremere finché si può e da gettare alle ortiche come uno straccio vecchio non appena non sia più in grado di offrire gratificazioni di sorta.

L’ affermazione dell’ “io” consisterebbe, in definitiva, nella capacità e nella determinazione a negare sé stessi. Una specie di triplice salto carpiato, avvitati su sé stessi, per tuffarsi nel nulla. In tale posa “prometeica”, in questo supposto eroismo di fronte alla morte – una sorta di “cupio dissolvi” – si attesterebbe la libertà di cavalcarne l’ineluttabile necessità, anticipando l’evento, anziché accettarne il naturale decorso. Ma è davvero così? Oppure si tratta, al contrario, di una fuga ?

Si va affermando, nel profondo di una coscienza via via più diffusa, un turbamento profondo e disarmato che compromette quel rapporto tra la vita e la morte che non è fuori luogo definire “vitale”, nella misura in cui non è possibile disgiungerle – per quanto siano in un rapporto di opposizione polare – più di quanto si possano separare le classiche due facce della stessa medaglia. E’ tale la foga, la determinazione esaltata e cieca con cui si invoca l’eutanasia, fingendo sia l’apoteosi della piena soggettività, da far sorgere il legittimo sospetto che – per quanto intesa come “diritto alla morte” da contemplare nei casi drammatici e disperati – di questi ultimi, di fatto, importi assai poco, mentre, in effetti, altro non sia se non il sipario che occulta quella vertigine abissale ed oscura che, una volta smarrito il senso della trascendenza – che non è necessariamente connesso ad una visione religiosa – genera un’angoscia esistenziale incontenibile.

Non a caso, quando si vuole nientemeno che “salire alla vetta” che è, come dire, appagare un’ aspirazione profonda, un’ attesa che nobilita la propria vita, il linguaggio tradisce, cosicché si evocano “morti volontarie assistite” che, di per sé, alludono addirittura ad un di più rispetto all’eutanasia classicamente intesa. Alludono a quella concezione “possessiva” ed autoreferenziale della vita che, già di per sé, custodisce in grembo il germe di quella dimensione disperatamente solitaria ed “infernale” cui si vorrebbe sfuggire.

In secondo luogo, è necessario riflettere – e qui il discorso si amplia lungo un crinale da esplorare in una prossima occasione – in ordine al fatto che, come successe a suo tempo con la legge 194, una volta che si siano superate certe “colonne d’Ercole” o meglio siano stati abbattuti i principi di fondo che presiedono ad una certa concezione della vita, diventi poi difficile contenere una tendenza che progressivamente allenta i vincoli, amplia senza più misura le clausole di accesso a determinati interventi, i criteri prudenziali previsti, incamminandosi verso una deriva incontrollabile, pericolosa e tale da contraddire gli stessi presupposti originari delle normative introdotte.

Domenico Galbiati

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