“Cuando se pacta con la derecha, la derecha es la que gana”
(Quando si scende a patti con la destra, e’ la destra quella che vince).
Questa affermazione di Radomiro Tomic, storico leader della DC cilena, a prima vista, tradotta qui da noi, dalle tragiche vicende del Paese sudamericano, potrebbe apparire fuori contesto nel quadro della riflessione che ci impegna oggi.
Ma non è così.
Anzi, sta chiaramente ad indicare come i democratici-cristiani – e lo dico senza retorica – sotto ogni cielo, al di qua’ ed al di la’ dell’oceano, dall’ emisfero boreale a quello laustrale – nulla hanno da spartire con la destra.
L’affermazione di Tomic, ci e’ stata ricordata, in anni ormai lontani, anche da Gabriel Valdes – Presidente del Senato e Ministro degli Esteri di Eduardo Frei, a capo della DC cilena negli anni della dura opposizione a Pinochet – quando, invitato da Gilberto.Bonalumi, nell’ aprile ’98, intervenne alla “tre giorni” di studio che il PPI lombardo tenne a San Pellegrino ed a cui presero parte anche Beniamino Andretta, Ciriaco De Mira, Gerardo Bianco ed altri autorevoli amici dell’ allora Partito Popolare.
In effetti, la “discontinuita’”, oggi necessaria se intendiamo avviare una nuova fase di impegno nel segno della cultura politica del cattolicesimo democratico, non è certo “dissipazione” della memoria; la quale, non a caso, del resto, attiene, al di la’ delle forme storiche che passano, la “continuità” ideale, ciò che permane, i fondamenti del nostro pensiero politico.
In questo senso, l’autonomia che abbiamo smarrito ormai da almeno un quarto di secolo a questa parte e che oggi rivendichiamo, dalla destra e dalla sinistra, non è indifferenza o geometrica equidistanza dagli uni e dagli altri.
Ne’, ovviamente, può essere scambiata per una qualche forma di autoreferenzialita’ testimoniale che separi una auspicabile nuova forza politica di ispirazione cristiana dal contesto pubblico in cui avviene il libero confronto democratico e la isoli in una sorta di limbo solipsistico.
Occorre, piuttosto, ripensare ed aggiornare la formidabile intuizione degasperiana della “coalizione” che è tanto più forte, quanto piu’ sa guardare in faccia le differenze delle
formazioni che vi concorrono e le assume come una ricchezza, anziché nasconderle sotto il tappeto in funzione di fusioni improprie che, tutt’al piu’, conducono ad una sorta di uniformita’ che nulla ha a che vedere con la forza della effettiva unita’ d’azione dei diversi.
L’autonomia, insomma, non c’entra nulla con la tattica che la sterilizzerebbe in una logica commisurata solo alle opportunità di potere di volta in volta accessibili.
Muove, al contrario, da una precisa e puntuale intenzione strategica che attiene la “visione” politica che vorremmo concorrere a costruire.
Quindi, per tornare alla memoria che non intendiamo dissipare, non possiamo non ricordare che se Sturzo non intendeva unificare forzosamente i cattolici, bensì era consapevole di porre in campo un discrimine tra i credenti che avevano maturato una piena consapevolezza del valore della democrazia e coloro che ancora indugiavano, De Gasperi, per parte sua, concepiva la Democrazia Cristiana come partito che dal centro guardava a sinistra, assumendo il compito di impedire che i ceti popolari moderati, nella cruda difficoltà dell’immediato dopo-guerra, si trasformassero in un blocco d’ordine, preda e massa di manovra di una destra politica – che non a caso è comparsa solo quando le energie della DC erano ormai esauste – ma piuttosto venissero stabilmente attestati dentro l’ordinamento costituzionale e democratico del Paese.
Ed è sulla scorta della “continuità” di questo percorso ideale e politico che la possibile nuova forma del nostro impegno oggi, deve declinare la sua autonomia come “alternativa”, fortemente alternativa, nei confronti della sinistra ed “antitetica”, decisamente antitetica, nei confronti della destra.
Domenico Galbiati

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