Se al governo del Paese ci fossero uomini diversi dagli attuali, le cose andrebbero meglio? O, per lo meno, diversamente? È una domanda che viene ogni giorno posta, retoricamente, dai sostenitori a tutti i costi dell’attuale governo. Personalmente, respingo il contenuto sottilmente autoritario di questa domanda.

Penso che, in un paese davvero democratico, i governi vadano liberamente giudicati dai cittadini per quello che fanno, o non fanno. E non per quello che altri avrebbero fatto (ma chi può fornire una prova del genere?) al loro posto. Ovviamente lo stesso deve valere per le opposizioni.

Pertanto, il fatto che – in questo momento – l’opposizione sia rappresentata da figure politiche su cui è difficile dare un giudizio lusinghiero, ma possiamo anche dire tranquillamente pessimo, non implica una benevola sospensione di giudizio verso la maggioranza e il governo. Aggiungo che, se anche si dimostrasse che le ricette dell’opposizione sarebbero catastrofiche ai fini della gestione della pandemia (io invero più che catastrofiche le giudico confuse e contraddittorie, quanto quelle del governo), questo ancora non dovrebbe bastare a farci chiudere gli occhi sul decadimento della vita democratica – non ipotetico – ma reale a cui stiamo assistendo.

La scarsa sensibilità dell’italiano medio circa i beni e le finanze pubbliche ha trovato in questi mesi una facile (e naturale) alleanza con un personale di governo spregiudicatissimo che si è appropriato di decisioni che avranno un impatto di portata storica su tutti i contribuenti italiani. Ma è nota l’indifferenza degli italiani ai temi della fiscalità – l’unico paese occidentale e moderno in cui si possono vincere le elezioni preannunciando nuove tasse – e non per alto spirito pubblico ma, al contrario, per segreta fiducia nelle mille possibilità di evaderle.

Ciò ha favorito l’apertura di una nobile gara (fra forze della maggioranza, ma ancor di più fra maggioranza e opposizione, lavoratori e parte datoriale) a chi reclamava i ristori più alti. E già questo dovrebbe allarmare qualunque tax payer. Ma non sarà sfuggito che nelle concrete decisioni di spesa non uno spiraglio è stato lasciato – in un momento di evidente emergenza nazionale – alla rappresentanza di una buona metà dell’elettorato. Ancor meno che uno spiraglio è stato offerto in materia di importanti nomine di manager dell’industria e dei principali servizi che opereranno con finanza non privata ma pubblica, né tanto meno di nomine dei vertici di grandi agenzie che non dovranno eseguire mandati partitici, ma applicare leggi dello Stato.

Non abbiamo assistito solo ad un ennesimo spettacolo di irresponsabilità fiscale, orchestrato e diretto mediaticamente dalle stanze del governo, abbiamo visto di più e di meglio: con totale indifferenza al dato incontrovertibile che il maggior partito oggi presente in Parlamento ha più che dimezzato il proprio consenso, si è concesso uno spazio inaudito ad un’azione che – è evidente agli occhi di tutti – ha il solo fine di perpetuare, ad ogni costo e fino all’ultimo giorno, il misero privilegio di una indennità da parlamentare o, peggio, di costruire, attraverso un incrocio di micro ricatti o attraverso un unico grande ricatto, un proprio (inesistente) futuro politico.

E adesso ci tocca assistere anche all’ultimo atto: per risolvere le contraddizioni interne alla cosiddetta maggioranza, si soppianta un organo costituzionale, il Governo, e si aggira una norma di legge che già (dal 1967!) individua nel CIPE la cabina di regia per le azioni che dovrebbero confluire nel (sempre più fantomatico) Recovery Plan. Al suo posto si vorrebbe dar vita ad una nuova, ennesima, struttura che risponde direttamente e solo al capo del Governo o a chi egli riterrà opportuno. Ovviamente, il tutto verrà “comunicato” al Parlamento. E poiché stiamo parlando dei livelli decisionali più alti del nostro Stato, si mistifica tutto ciò (complice la stampa, affetta da cronici qualunquismo e ignoranza) come tema “politico”, bega fra partiti, nascondendo la vera natura della questione, che è invece costituzionale, cioè idonea a ledere le basi della nostra vita democratica.

Insomma, non so se Salvini o Meloni avrebbero dimostrato – in analoghe circostanze – maggiore o minore sensibilità democratica. Invidio chi risponde con certezza in senso negativo. Ma soprattutto credo non sia un problema concreto, e quindi una domanda che possa essere posta in quanto, com’è noto anche ai nostri studenti più dealfabetizzati, la nostra non è una democrazia plebiscitaria alla vigilia di una votazione risolutiva. Nel porre questa domanda irreale si mette in campo un mero espediente retorico (alquanto volgarotto) utile a diffondere una nebbiolina, che giova solo a chi sopravvive grazie a tante cortine fumogene. Anziché educare i cittadini alla conoscenza e alla valorizzazione dei tanti passaggi di cui vive una democrazia matura, si preferisce così ridurre tutto ad una irrealtà (Conte o Salvini?), rafforzando la già dilagante interpretazione della politica come scontro tribale. Colpisce che anche alcuni sedicenti “moderati” sposino questo stile di pensiero: segno della profondità della nostro crisi culturale.

Credo invece che sia più serio e costruttivo riflettere sul livello di povertà culturale, di miseria politica e di scadimento della dinamica democratica indotta in questi lunghi mesi di pandemia dal Governo Conte e sulla auspicabilità di quello che molti chiamano un “incidente parlamentare” ma che – se avvenisse – io preferirei definire piuttosto un “imprevisto provvidenziale”.

Enrico Seta

 

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