“Abbiamo difeso i redditi medio bassi” è il refrain che accompagna le Leggi di bilancio e gli interventi di natura economica varati nel corso degli ultimi 15 anni da Governi di diversa estrazione. Ivi compresi quelli tecnici guidati da Mario Monti e da Mario Draghi. Evidentemente con scarso successo, dato che l’impoverimento dei redditi e l’aumento delle disuguaglianze, a detta di uno stuolo di politici, sindacalisti e intellettuali, continuano a rimanere al centro dell’attenzione ,compreso il fabbisogno di risorse pubbliche da dedicare allo scopo. La Legge di bilancio 2024 prosegue nella medesima direzione. Prevede una massa ingente di risorse finalizzate a difendere il potere di acquisto delle pensioni fino a 4 volte l’importo di quelle minime e dei salari inferiori ai 35 mila euro annui. Nella stessa direzione muove anche l’accorpamento delle prime due aliquote Irpef che assicura un risparmio di 256 euro per i redditi fino a 28 mila euro.

La proposta inviata al Parlamento deve fare i conti con il mutamento dello scenario economico e con i vincoli di bilancio che saranno comunque introdotti dal nuovo Patto di stabilità europeo. Per i salari si tratta di un provvedimento provvisorio limitato al prossimo anno e che dovrebbe essere prolungato per evitare la perdita del valore equivalente agli sgravi dei contributi previdenziali (fino al 7%).

Nel frattempo, nonostante la mole di risorse dedicate e un aumento della spesa annua trasferita all’Inps per queste finalità (dai 74 miliardi di euro anno del 2008 ai 157 registrati nel 2022), il numero delle persone povere risulta più che raddoppiato. Nonostante l’evidenza dei numeri, il dubbio che qualcosa non abbia funzionato nelle politiche redistributive fatica a emergere.

La spiegazione la si può ritrovare negli stessi provvedimenti che hanno comportato l’ampliamento della spesa pubblica per il sostegno dei redditi delle famiglie e, nei tempi recenti, anche sostenere la redditività delle imprese e il valore dei salari dei lavoratori. Le conseguenze del Superbonus per le ristrutturazioni delle abitazioni è solo l’ esempio più eclatante della bonus economy che ha invaso tutti i gangli della produzione e della redistribuzione del reddito e che ha generato un effetto di dipendenza dall’intervento dello Stato con conseguenze che rischiano di essere nefaste per il nostro futuro.

L’affermazione è perentoria, ma si può comprendere se si analizzano i risultati di queste politiche sulla redistribuzione del reddito.

Il primo filone è quello fiscale. La riduzione delle aliquote e l’aumento delle detrazioni oggetto di vari provvedimenti sono stati concentrati sui redditi medio bassi e sono compensati da un incremento surrettizio della pressione fiscale sui redditi più elevati con una riduzione delle detrazioni fiscali e un aumento delle addizionali locali. Due ulteriori provvedimenti: il bonus Renzi degli 80 euro mensili destinato ai salari fino ai 26 mila euro e l’attuale sgravio dei contributi previdenziali fino a 35 mila euro lordi l’anno comportano anche il paradossale effetto di generare redditi da lavoro netti per questi lavoratori superiori a quelli dei colleghi di lavoro che rimangono esclusi per poche centinaia di euro.

L’Agenzia delle Entrate presenta il conto di questi provvedimenti: il 42% dei contribuenti formalmente attivi non paga nemmeno un euro di imposte sui redditi; sul versante opposto il 13% che denuncia i redditi superiori ai 35 mila euro lordi contribuisce a oltre il 60% delle entrate complessive.

Nel corso degli anni ha preso corpo un’altra novità: quella di utilizzare le dichiarazioni Isee (il criterio previsto dalla legge per valutare i redditi e i patrimoni per selezionare i potenziali beneficiari delle prestazioni assistenziali) per contingentare l’accesso a una miriade di prestazioni: gli Assegni unici per i figli, i ticket e i bonus di diversa natura erogati dalle amministrazioni centrali e locali, che durante la pandemia Covid sono diventati un pilastro portante dei sostegni al reddito. Anche in questo caso la fatidica soglia dei 35 mila euro lordi, nella fattispecie del reddito familiare e non individuale, è stata assunta come il discrimine per la gran parte dei provvedimenti. Tra i quali i condoni fiscali di varia natura e persino la cancellazione delle multe stradali. Il superamento della soglia dei redditi Isee stabilita di volta in volta per contingentare l’accesso alle prestazioni può comportare la perdita di migliaia di euro di reddito. Queste pratiche proseguite in modo disordinato e non di rado per introdurre provvedimenti di dubbia utilità, rappresentano una sorta di binario parallelo per la redistribuzione del reddito che penalizza i contribuenti generosi con il fisco e che aumenta in modo surrettizio la progressività della tassazione dei redditi.

Le rendite da pensione sono diventate un asse portante della formazione dei redditi familiari. Buona parte di queste (gli assegni sociali e di invalidità, le integrazioni dei minimi, i mancati versamenti dei contributi per gli sgravi sulle assunzioni e gli anticipi dell’età pensionabile) viene coperta dallo Stato per un importo annuo che è attualmente superiore ai 90 miliardi di euro. Ma essendo diventata una consuetudine quella assimilare le pensioni al di sotto dei 1.000 euro mensili alle pensioni povere, la rivalutazione delle rendite in relazione agli aumenti dell’inflazione, oltre a quelle meramente assistenziali, viene garantita anche a coloro che non hanno versato i contributi. A discapito degli ex lavoratori con pensioni lorde superiori ai 2.500 euro mensili che hanno versato durante la carriera centinaia di migliaia di euro al sistema previdenziale per i quali viene decurtato il tasso di rivalutazione.

A tutto ciò si aggiunge il canale utilizzato da milioni di persone, imprese, lavoratori autonomi dipendenti e famiglie, delle sotto dichiarazioni fiscali dei redditi e delle prestazioni lavorative sommerse. Nella seconda decade degli anni 2000 la somma complessiva dei redditi non dichiarati risulta superiore al dato del Pil del 2022 (1,9 mila miliardi di euro) per un mancato pagamento all’erario di oltre 1.000 miliardi. La vulgata corrente attribuisce l’evasione alle grandi imprese, responsabili semmai del trasferimento degli utili aziendali nelle sedi aperte nei Paesi europei che prevedono minori imposte. Nella realtà la gran parte dei redditi non dichiarati si concentra nei contribuenti delle fasce di reddito medio basse che non versano imposte, o che lo fanno in misura limitata. Basta incrociare i dati della Agenzia delle Entrate con quelli evidenziati dall’Istat nelle indagini sulle prestazioni sommerse per comprendere la partecipazione di massa che alimenta l’evasione delle imposte.

Dichiararsi poveri, o a rischio di diventarlo, è diventata una sgradevole consuetudine per alzare il tiro delle rivendicazioni di ogni genere che sono nel frattempo sono state aumentate con il concorso della creatività delle nostre classi dirigenti e degli intellettuali che si sono specializzati nell’analizzare in modo peloso la povertà dilagante e l’aumento delle disuguaglianze. Senza tener conto del principio di realtà che consiglia di distribuire il reddito dopo averlo generato.

Un sistema che penalizza i produttori e premia gli evasori genera distorsioni pericolose nei comportamenti dei cittadini. Le conseguenze sono visibili: nonostante i progressi recenti, il nostro Paese rimane il fanalino di coda per numero di occupati. L’unico tra i Paesi sviluppati ad avere un numero di persone a carico, minori esclusi, superiore a quelle che lavorano.

I provvedimenti di redistribuzione del reddito in assenza di una crescita significativa dell’economia e della produttività hanno consentito di mantenere inalterati i livelli delle disuguaglianze interne, soprattutto per via della compressione dei redditi medio alti, ma non hanno impedito la crescita della povertà.

Questo vale anche per i redditi da lavoro. I divari con gli altri Paesi europei sui salari medi sono per la gran parte motivati dalla riduzione della quota dei lavoratori occupati con qualifiche medio elevate e dall’andamento negativo della produttività.

Invertire questa tendenza è tecnicamente possibile. Non mancano le tecnologie e le risorse finanziarie per farlo, ma purtroppo le dinamiche demografiche, la perdita della popolazione in età di lavoro e l’aumento atteso del numero dei pensionati, e tra questi la quota delle persone non autosufficienti, fanno intravedere la soglia di rottura che la rende impraticabile.

Natale Forlani

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