E’ nell’uso comune parlare di “azienda sanitaria” o “azienda ospedaliera” come se fosse condizione naturale.
Un’azienda ha come obiettivo il profitto, attraverso la produzione di “beni” – materiali o immateriali – utili, si spera, alla collettività: i beni prodotti devono avere un mercato, ossia qualcuno disponibile a dare del denaro per acquisire quel bene. Il mercato con il bilanciamento tra domanda e offerta regola il prezzo, con alcune dinamiche a corollario: più il bene è desiderato e richiesto, maggiore è il valore economico che genera a prescindere dal costo per produrlo; per aumentare gli utili, quando il bene non è essenziale o di nicchia, l’azienda lavora per renderlo il più possibile “desiderabile” e “scalabile”, ossia aumentare i volumi prodotti con un uso di risorse di produzione progressivamente proporzionalmente più scarse (credo che in economia si chiami “efficienza”) e contemporaneamente con politiche combinate di prezzo e di marketing per fare in modo che un numero sempre maggiore di persone lo possa acquistare: la spinta ai consumi, con il tanto deprecato – solo a parole – “depauperamento ambientale” (ogni prodotto consuma sempre un po’ di “ambiente”), è legata a questo semplice dinamismo consumistico a cui non è facile rinunciare.
E in un’azienda ospedaliera? Il “bene prodotto” è l’evento ricovero: ogni episodio di ricovero – il bene da produrre – ha una tariffa pre-definita specifica a prescindere dalla durata del ricovero e dell’esito dello stesso: i DRG, acronimo abbastanza noto, sono le modalità con cui in base al tipo di diagnosi di malattia si genera con un algoritmo la “tariffa” di remunerazione.
Negli USA, dove è nata, si chiama “prezzo” ed è stata pensata per remunerare i fattori produttivi impiegati e dare un guadagno alla azienda che produce il bene “evento ricovero”. La domanda del bene è pressoché continua ed è diffusa in tutti gli strati sociali (chi non ha bisogno – potenzialmente – del “bene: evento ricovero”? Negli USA ci sono più produttori del “bene” che si fanno concorrenza tra loro: è un mercato e i produttori – ossia gli ospedali – sono quasi tutti privati.
E’ una concorrenza che non gioca al ribasso del prezzo – la domanda c’è sempre! – ma semmai a migliorare la qualità percepita del bene venduto: “qualità percepita” perché l’attesa di tutti i richiedenti il bene è sempre la guarigione, quindi ciò che varia sono le condizioni per raggiungerla: tecnologia usata, rapidità delle cure, durata del ricovero, qualità alberghiera – da intendersi come qualità percepita nelle procedure usate per produrre il bene.
Più il ricovero è breve e più alta è la pressione a produrre “beni/ricoveri”, maggiore sono i profitti, più facile la produzione di un “bene non conforme” o di bassa qualità. Per tutelare l’acquirente, come per gli altri prodotti di commercio, si è diffusa la pratica delle cause legali risarcitorie per affrontare le quali le aziende hanno sviluppato “logiche produttive procedurali” sempre più rigide e formali che vanno sotto il nome di “medicina difensiva”: se la procedura, preventivamente certificata da organismi indipendenti, è stata correttamente eseguita, il produttore del bene ha buone probabilità di non essere sanzionato, se trascinato in giudizio; quale mercato collaterale si è sviluppato un fiorente commercio di società certificatorie e di società che assicurano contro il rischio di essere condannati a risarcire e che naturalmente incidono poi sui prezzi del bene prodotto.
Al miglioramento del bene prodotto si accompagna sempre un aumento del prezzo: negli USA gli acquirenti sono quasi sempre le Assicurazioni (in concorrenza tra loro) che vendono a loro volta il pacchetto assicurativo ai singoli clienti, ossia ai cittadini: le trattative – in ogni passaggio – sono complesse e soggiacciono alle regole del mercato.
Naturalmente le assicurazioni devono trarre i loro legittimo guadagno e quindi tendono ad offrire “beni” che hanno un “mercato ampio” (più numerosi sono gli acquirenti più contenuta può essere la tariffa e maggiore è comunque il valore economico che si produce: consumismo sanitario) e che hanno un costo ben definito e misurabile accuratamente: un ricovero ha queste caratteristiche, così come gli esami diagnostici strumentali e in generale le procedure “one-shot”, ossia che hanno un processo di erogazione preciso e temporalmente definito e che danno origine ad un prodotto ben visibile all’acquirente. I costi dei pacchetti assicurativi variano in relazione alla qualità e estensione delle coperture assicurate e i cittadini, in relazione alle loro capacità di spesa, valutano quale acquistare: qualche milione di persone è senza copertura assicurativa. Non è certo un caso che tutti i percorsi di lungo-assistenza domiciliare, la cronicità e la gestione della fragilità non abbiano un mercato assicurativo, nemmeno negli USA: sono processi che non sono mai definibili né per durata né per modalità di esecuzione: come si possono calcolare i fattori produttivi per definirne il prezzo? E infatti sono pacchetti quasi sempre a totale carico del singolo cittadino, se può permetterselo. E, essendo un mercato marginale, non ci sono nemmeno aziende che producono questi processi….
Peraltro non va meglio nella maggior parte dei paesi a medio e basso sviluppo economico dove la maggior parte dei cittadini è senza copertura sanitaria comunque.
In Italia vige la stessa logica “assicurativa/consumistica”, con qualche “differenza”, peraltro non marginale.
Lo Stato è l’Assicuratore Unico e garantisce a tutti i cittadini il pacchetto delle prestazioni statuite: gli interventi di urgenza/emergenza, i ricoveri ospedalieri, le comunità terapeutiche per malati psichici, tutte le prestazioni “one shot” presenti nel Nomenclatore Tariffario Nazionale (più di qualche migliaio), tutti i farmaci ospedalieri e di fascia A, i dispositivi e i presidi inseriti in apposito nomenclatore e molte altre provvidenza definite per legge.
Questa “assicurazione universale” ha tariffe per i cittadini che variano in relazione alla loro capacità reddituale (Il SSN è finanziato dalla fiscalità generale che ha una sua progressività) cui si aggiunge una “tassa aggiuntiva a consumo” – il ticket – per le fasce di popolazione non esenti e solo per alcune tipologie di beni.
Lo Stato devolve alle Regioni la quota di riparto delle risorse economiche derivanti dalla fiscalità generale, perché attraverso la organizzazione sanitaria regionale forniscano ai cittadini i beni sanitari garantiti dai Livelli Essenziali di Prestazioni, così come definiti nei LEA.
In realtà in Italia, anche se la logica economica di produzione è identica a quella nord-americana non si parla di “beni”, ma di “servizi sanitari”: anzi di servizi socio-sanitari!
Un servizio non è un “bene” così facilmente circoscrivibile e definibile: per di più se lo si estende all’ambito sociale, ossia a quelle condizioni esterne al dato biologico della malattia, la definibilità è ancora più complessa e forse è proprio del tutto aleatoria: e non è un caso che in Italia da decenni ci si accapiglia attorno a queste realtà dei “servizi socio-sanitari da garantire”, di fatto quasi mai definibili, comunque sottoposti ad una logica di produzione di “beni” poco compatibile con il concetto stesso di servizio socio-sanitario.
Seconda importante differenza: in Costituzione si parla di Tutela della Salute come diritto da garantire ai cittadini. La Salute è un concetto complicatissimo da definire, specie se si rispetta la soggettività di giudizio intrinseca in ciascuna persona e se per di più la si coniuga secondo la definizione dell’OMS: “condizione di completo benessere fisico, mentale e sociale”.
Difficile credere che questo concetto di Salute sia – anche solo in parte – raggiungibile per il tramite dell’acquisto di “beni” forniti da aziende di produzione.
Terza importante differenza: lo Stato, per il tramite delle Regioni, è il maggior produttore di “beni” sanitari: assicura e produce ciò che assicura.
Lo Stato non ha il fine di remunerare il capitale ossia di guadagnare dalle sue azioni: rimane del tutto incomprensibile il perché si sia voluto introdurre il concetto di azienda sanitaria e ospedaliera con tutto quel che ne consegue anche solo sulla scrittura e tenuta dei bilanci aziendali.
In linea teorica, la condizione di essere simultaneamente chi raccoglie i contributi assicurativi dei cittadini e chi produce i beni che l’assicuratore (cioè lui stesso) acquista e mette a disposizione, dovrebbe garantire meglio tutti, perché a differenza degli “assicuratori veri”, lo Stato non guadagna vendendo il prodotto assicurativo sanitario e non dovrebbe guadagnare nemmeno vendendo i beni sanitari a differenza delle “aziende vere”
Quasi un “bengodi” per i cittadini (e molti lo rinfacciano all’Italia).
Ma, per produrre i “beni sanitari” sono necessari “forza lavoro”, “beni intermedi”: farmaci, presidi, dispositivi, tecnologia elettromedicale, e luoghi di produzione, tutti sottoposti alle logiche del mercato classico. L’acquirente del bene finale, ossia il cittadino, titolare del diritto, tende ad esigere “beni” sempre più innovativi e comunque in linea con le sue aspettative spinte anche dal marketing commerciale spesso “aggressivo”, oltre che da una consapevolezza sempre più precisa.
Lo Stato a sua volta è sottoposto ad un vincolo di bilancio non solo europeo (ossia mediato da accordi tra Stati) ma determinato anche dai mercati finanziari che vincolano la capacità di spesa dello Stato stesso, acquisendone il debito.
Con la naturale esplosione della domanda (che non è legata solo all’invecchiamento della popolazione!), costi crescenti dei beni intermedi e di produzione, vincoli di bilancio pubblico non mediabili in termini politici, perchè sottoposti alla logica algebrica dei mercati finanziari, il sistema sanitario è da decenni in stato di grave sofferenza.
La risposta – consapevole? – dello Stato italiano è stata quella di infilarsi sempre più nel “tunnel” del mercato aziendale sanitario, ovviamente all’italiana.
Sono state istituite le “aziende ospedaliere”, ossia “officine” per produrre “beni”, governati da manager di stato, ossia di nomina regionale, a loro volta sottoposti ai vincoli politici di chi li nomina, con il duplice mandato di “far tornare i conti” – definiti dal Ministero dell’Economia che ha il poco invidiabile compito di convincere i mercati finanziari a finanziare il nostro Stato (lucrandoci ovviamente) – e di “non scontentare troppo” le attese degli elettori, ossia i cittadini: compito impossibile. E lo si vede.
Spesso l’”officina ospedale” è inserita in una azienda che ha anche il compito di produrre altri tipi di beni sanitari: la medicina territoriale. Governare con una logica di bilancio aziendale una “azienda”, un cui ramo produttivo – il territorio – non è in grado di produrre “beni definibili” (es assistenza domiciliare, medicina di base, medicina preventiva), e l’altro ramo ha prezzi non negoziabili (tariffe stabilite dall’assicuratore), può solo portare il sistema ad esplodere, cioè a non essere in grado di gestire i bilanci e nemmeno di offrire i beni o servizi che dir si voglia. Non si può far altro che ripianare i deficit, ruotare i manager e commissariare le Regioni,
L’SSN le sta provando tutte, rigorosamente all’interno della medesima logica di mercato: tariffe amministrate, contrazione dei costi di produzione (stipendi bassi e personale sempre più ridotto all’osso, cercando una efficienza produttiva da misurare peraltro con qualità e quantità di servizi prodotti valutati come somma di prestazioni: di fatto assolutamente irrealizzabile), ma nulla possono con la esplosione dei costi dei beni intermedi: farmaci e tecnologia sanitaria, e incidentalmente con i costi energetici.
E la domanda continua a crescere e con essa le liste d’attesa, che sono anche l’espressione della scarsità di risorse disponibili.
E di conseguenza si è sviluppato un fiorente mercato sanitario privato dove chi può acquista i “beni luccicanti” in produzione: molte volte sono beni necessari, in una percentuale non piccola sono sostanzialmente indotti dal marketing.
Nel mercato statale, sempre più stringenti sono le spinte ad erogare solo “beni” di comprovata efficacia (medicina basata sull’evidenza, linee guida et similia), nel tentativo di imbrigliare la domanda agendo sempre sui produttori e mai sui consumatori: e nel contempo regole sempre più stringenti nell’introdurre tecnologia innovativa, con tensioni e malcontenti generali. Risultato: la domanda privata è esplosa ancora di più e, complice la crisi economica, si è poi riversata come uno tsunami sulla domanda pubblica: liste d’attesa decisamente scandalose!
Se la logica è il mercato, gli operatori sanitari – mal pagati e senza più nemmeno la relazione stretta con il malato, potente induttore di motivazione in un contesto non “mercatistico” – sono spinti a lasciare l’azienda pubblica o, chi può, la ricatta (i gettonisti): adesso abbandonano anche la professione sanitaria (crollo delle iscrizioni alle scuole di specialità mediche e delle professioni sanitarie).
Dietro l’angolo, ormai avanzano le soluzioni del welfare aziendale che sosterranno a ritmo crescente lo sviluppo di aziende private dedicate alla produzione di beni sanitari e a seguire di assicurazioni sanitarie, dapprima integrative e poi via via …chissà.
E poi il mondo di Amazon, di Google, di Microsoft e di Apple che già sta preparando il nuovo mercato dei beni sanitari governati dalla tecnologia digitale guidata dalla Intelligenza Artificiale che deciderà se si è malati oppure no: a pagamento si intende.
E in questa situazione di crisi profonda e irreversibile con chi se la stanno prendendo gli italiani? Con il sistema che non offre tutti i beni luccicanti, creduti necessari, e con i “privati” che grazie all’accreditamento con il SSN rubano risorse al sistema: in realtà furbescamente sono più attrezzati a “vendere” opportunisticamente al SSN ciò che è loro più conveniente. Se il privato for profit, che pure contribuisce alla qualità eccellente della sanità italiana, dovesse uscire di colpo dal SSN, come qualcuno auspica, la morte del Servizio Sanitario nazionale sarebbe immediata: sicuramente passeranno comunque al mercato assicurativo privato: è questione solo di tempo.
Gli Enti del Terzo Settore, ossia senza scopo di lucro e spesso originati da una mission religiosa, e le loro strutture, stanno crollando uno dopo l’altro in questo folle mercato della salute, strangolati dallo stesso Stato cui appartengono e con cui vorrebbero collaborare, pur essendo portatori di quel “DONO” – la motivazione intrinseca – che solo può garantire una risposta alla domanda di salute che sgorga da tutti, specie dai più poveri e indifesi.
Curioso: gli ospedali o ospizi e i primi servizi di cura sono sorti proprio per volontà e azione di chi, pur attento alla sostenibilità, ma senza fini di lucro, aveva messo al centro la risposta al bisogno e alla relazione di cura.
E’ necessario una radicale trasformazione di prospettiva e di organizzazione del SSN per sviluppare servizi socio-sanitari sostenibili, ma necessariamente relazionali e iscritti nella comunità di appartenenza: la traversata sarà lunga e nemmeno indolore.
Se non si parte, avremo i poveri sotto le macerie della sofferenza, e i ricchi sempre più infelici e disperati.
Massimo Molteni