Numeri alla mano, il reddito di cittadinanza ha finora fallito non solo sul fronte delle politiche attive per il lavoro ma persino nell’obiettivo di contrastare la povertà: ecco perché una riforma del provvedimento, già avviata con l’ultima Legge di Bilancio, era ed è assolutamente inevitabile
Con la nuova Legge di Bilancio per il 2023 sono state introdotte delle importanti novità per il reddito di cittadinanza, in attesa della riforma complessiva che viene traguardata per l’inizio del prossimo anno. Il regime transitorio rimane sostanzialmente inalterato (la durata di 18 mesi) per i nuclei familiari che prevedono la presenza di minori, di persone non autosufficienti e di anziani con più di 60 anni.
In assenza di queste condizioni, per richiedenti in età di lavoro il sussidio viene limitato a 7 mesi, con l’obbligo di frequentare per almeno 6 mesi corsi di formazione finalizzati a migliorare le competenze dei disoccupati. Tutte le offerte di lavoro contrattualmente regolari, sulla base di criteri che saranno definiti con un decreto del Ministero del Lavoro, dovranno essere accettate e i rifiuti saranno sanzionati con la perdita del sussidio per il nucleo familiare. Viene autorizzato il cumulo tra l’assegno del reddito di cittadinanza e i salari provenienti da prestazioni di lavoro stagionale nel limite di 3.000 euro annuali. Le imprese che assumeranno i disoccupati con il reddito di cittadinanza saranno esentate dal pagamento dei contributi previdenziali fino a 8mila euro anno. Per i giovani tra i 18 ei 29 anni che non hanno completato l’obbligo scolastico il sussidio viene condizionato all’iscrizione a corsi scolastici, mentre gli enti locali devono avviare programmi per lavori di pubblica utilità per i beneficiari in età di lavoro residenti nel loro territorio.
La scelta operata dal nuovo governo e dal Parlamento è estremamente chiara: separare i percorsi dedicati alle persone in grado di lavorare da quelle fragili e bisognose di assistenza. Una scelta che suscitato le ire delle opposizioni, in particolare del Movimento 5 Stelle e del Partito Democratico, che accusano l’esecutivo di voler privare dei sostegni le persone che risultano comunque difficilmente occupabili per la carenza di competenze e la scarsa dotazione di esperienze lavorative, ovvero perché residenti in territori dove risulta carente la domanda di lavoro. Un atteggiamento singolare dato che l’obiettivo di attivare almeno 1 milione di inserimenti lavorativi con “la più grande politica attiva del lavoro promossa in Italia” (citazione della Pubblicità Progresso promossa per lanciare il RdC) era stato utilizzato dal governo Conte come pretesto per varare in fretta e furia un provvedimento che ha rivelato fin dall’inizio i suoi limiti.
Il fallimento delle politiche attive del reddito di cittadinanza era del tutto scontato. La pretesa di assicurare a persone disagiate 3 proposte di lavoro congrue a tempo indeterminato, non inferiori a 780 euro con la possibilità di rifiutarne 2 senza pagare dazio, rasentava il ridicolo. Altrettanto la decisione di dirottare tutte le risorse nazionali disponibili per l’assegno di ricollocazione per i disoccupati e per i percorsi di alternanza scuola lavoro per finanziare queste finte politiche del lavoro. Ma il vero fallimento del provvedimento si è manifestato nella palese incapacità di contrastare i livelli di povertà assoluta che sono aumentati, nel corso del primo triennio di erogazione dei sussidi, dai 5 a 5,6 milioni di persone.
Solo colpa di COVID-19? La pandemia ha fatto la sua parte ma, nel frattempo, sono aumentate in modo esponenziale anche le risorse erogate dallo Stato per prevenire la contrazione dei redditi e quelle dedicate al reddito di cittadinanza, anche con l’introduzione del reddito di emergenza che ha allargato i requisiti di partecipazione e, nei tempi più recenti, con quella dell’assegno unico per i minori a carico, esteso alle famiglie fiscalmente incapienti e agli stranieri. Quest’ultimo provvedimento con un finanziamento aggiuntivo di 7 miliardi, inferiore di 2 miliardi rispetto al costo annuale del reddito di cittadinanza, secondo l’Istat, ha contribuito in modo più efficace a ridurre il numero delle persone povere (-3,4% rispetto al 1,4 del RdC). Se si confrontano le stime effettuate dall’Istat sulle caratteristiche delle famiglie in condizioni di povertà assoluta e gli esiti della erogazione dei sussidi del RdC pubblicati dall’Osservatorio INPS (CLICCA QUI) si comprendono i motivi del fallimento. Nei 3 anni e mezzo di vigenza il numero delle persone che hanno beneficiato del reddito e della pensione di cittadinanza (circa 5,5 milioni per una spesa di 25 miliardi di euro fino al 31 agosto 2022) risulta superiore alle persone in condizioni di povertà stimate dall’Istat nel Mezzogiorno (il 62% rispetto al 42%) e per i nuclei composti da una sola persona (il 40% delle domande accolte). Ma largamente inferiore ai numeri dell’Istat per le componenti più esposte ai rischi di impoverimento: le famiglie numerose (solo 362mila nuclei con 650mila minori a carico rispetto ai 762mila nuclei e 1,380 milioni di minori stimati dall’Istat) e per i nuclei composti da stranieri (solo il 12% rispetto al 27 % Istat).
Queste divergenze sono la conseguenza di scelte politiche effettuate dai promotori del provvedimento: dei criteri previsti dalla normativa per la selezione dei beneficiari e per il calcolo delle integrazioni al reddito che privilegiano i nuclei familiari monocomposti rispetto a quelli numerosi; del valore delle integrazioni uniforme su tutto il territorio nazionale rispetto ai differenti costi della vita. Ma altrettanto grave è risultata la scelta di anticipare l’attuazione del Rdc, per motivi di consenso elettorale, nella completa assenza di strumenti di accertamento della correttezza delle informazioni sui redditi e sui patrimoni da parte dell’INPS, che è stata sostituita dalle autocertificazioni ISEE da parte dei richiedenti. Autodichiarazioni ritenute difformi rispetto ai requisiti reali per circa il 70% delle dichiarazioni esaminate nelle indagini a campione effettuate dalla Guardia di Finanza. In una recente intervista rilasciata al Corriere della Sera (CLICCA QUI), il Direttore Generale dell’INPS Vincenzo Caridi conferma che le convenzioni per il trasferimento dei dati in possesso delle altre amministrazioni per l’accertamento dei redditi e dei patrimoni sono state sottoscritte nel mese di aprile del 2022. L’assenza di controlli preventivi adeguati e le difficoltà di attivare le indagini ex post su milioni di percettori hanno favorito le truffe organizzate ai danni dello Stato e dei contribuenti in parallelo alle sottodichiarazioni dei redditi effettivi collegate alle prestazioni sommerse.
Di fronte a questi numeri l’esigenza di riformare il reddito di cittadinanza, e non solo per la parte relativa alle politiche del lavoro, è ineccepibile e doverosa. A suscitare scandalo dovrebbero essere semmai le reazioni scomposte e le accuse di voler fagocitare la guerra alle persone povere da parte di coloro che hanno preso a pretesto la povertà per costruire le basi clientelari del proprio consenso elettorale.
Natale Forlani
Pubblicato su Itinerari previdenziali (CLICCA QUI)