E’ una bella, buona notizia quella che ieri sera abbiamo appreso dal comunicato della Corte Costituzionale. Il referendum proposto dai radicali – anzi, dal “fronte progressista”, come recitavano alcuni telegiornali – è stato respinto dalla Corte, a dispetto dell’irrituale ed inopinato “endorsement” del suo stesso Presidente.

Ora si attendono le motivazioni della sentenza, ma evidentemente i giudici costituzionali, nella loro collegialità, hanno colto nella forma del quesito referendario – che qui ovviamente, come non mai, fa sostanza – qualcosa di più del “pelo nell’uovo” che il Presidente Amato auspicava, anzi suggeriva, di lasciar perdere. Trascinando, di fatto, la Corte  – come pochi, ben pochi osservatori hanno pur dovuto ammettere e sottolineare – se non nel cuore della controversia, almeno a lambire, in ordine ad un argomento di tale portata, l’arengo della politica. Su queste pagine lo ha chiaramente rilevato Giancarlo Infante, sfidando quel sostanziale impaccio che ha frenato buona parte della stampa libera (CLICCA QUI).

Senonché, il Presidente Amato, oltre che illustre giurista, è notoriamente politico troppo accorto e “sottile” perché la sua dichiarazione, a favore dell’ammissibilità del referendum relativo all’”omicidio del consenziente”, possa considerarsi alla stregua di una “voce del sen sfuggita”. Ma non è qui il punto.

Tutt’al più, concediamo che l’ “endorsement” del Presidente della Corte, oggi, pronunciata la sentenza, funzioni da lenitivo – quasi si trattasse di un piccolo premio di consolazione – della bruciante ferita che i radicali lamentano. Pronti, del resto, a rilanciare la sfida, come hanno già dichiarato. E non c’era da dubitarne. Del resto, il tema dell’eutanasia investe un fronte più ampio.

In questo delicatissimo frangente della nostra storia, è in gioco niente meno che la nostra auto-comprensione. Personale e collettiva. La consapevolezza che abbiamo di noi stessi, la coscienza che andiamo rielaborando circa il valore e la dignità della vita. Siamo, comunque, ad un bivio. Camminiamo su un crinale che si spalanca su due versanti, su due differenti letture di cosa vi sia, dall’una e dall’altra parte, di più autenticamente umano.

Se la vita sia un “dono”, che, come tale, va a sua volta donato, cosicché ogni vita dia luogo ad una arborizzazione via via crescente di relazioni che, ad un tempo, formano la persona e creano la comunità o se, piuttosto, debba essere vissuta come un “possesso” autoreferenziale ed esclusivo, rappresenta il vero discrimine, l’unico, l’ultimo, cioè quello fondamentale – da cui, se mai, ne derivano altri di ordine secondario – tra una visione etica e l’altra. La linea di demarcazione – che pur c’è – non passa necessariamente tra cattolici e non credenti, ma piuttosto tra chi accetta, si potrebbe dire, “sente” o sperimenta, ammette una ”relazione” originaria e, dunque, avverte un sentimento di stupore, di dipendenza e di gratitudine nei confronti di un fondamento – fosse pure la “natura” piuttosto che il Dio personale dei monoteisti – e chi rivendica a sé stesso la propria radicale autosufficienza.

Ad ogni modo, la sentenza di inammissibilità del referendum in ordine alla parziale abrogazione dell’art. 579 del C.P. è benvenuta anche perché – al di là del presunto “vulnus” alla sovranità popolare, anche qui invocato dal Presidente Amato – in effetti, fa bene alla democrazia, nella misura in cui  concorre o invita a riportare l’istituto referendario alla serietà ed alla ponderazione che sempre lo devono accompagnare, sottraendolo alla furia ideologica ed iconoclasta cui molti – non solo i radicali, per la verità – vorrebbero asservirlo. Ma è soprattutto il tema, in sé, dell’eutanasia o del “fine vita”, il complesso delle questioni eticamente sensibili ed a forte impatto antropologico, che meritano, se non altro, di essere  collocate in un contesto discorsivo che sia più sereno, meno pregiudiziale, pacato quel tanto che si può, almeno quel po’ che sia necessario per affrontare argomenti delicatissimi sulla falsariga di un’analisi oggettiva delle questioni in campo.

Occorrerebbe davvero che la politica accettasse un percorso, potremmo dire, di “rifondazione antropologica”, cioè si disponesse, in un momento di transizione talmente problematico e confuso, a riverificare le sue categorie interpretative, i suoi criteri alla luce dei valori e delle istanze originarie della nostra comune umanità.

Un’ ultima considerazione concerne il “comitato per il NO”, cui anche INSIEME ha aderito e la necessità che il corpo elettorale, i cittadini – a prescindere dal fatto di non essere chiamati a pronunciarsi già nei prossimi mesi, almeno su questo quesito – siano posti nella condizione di poter elaborare una propria, personale, critica, autonomia di giudizio su temi che non possono né essere orecchiati al bar né affidati all’onda emotiva  di movimenti d’opinione strumentalmente suscitati da apposite strategie mediatiche.

Andrebbe riscoperta quella forma “intellettuale” della carità che Papa Montini – risalendo a Rosmini ed ancora oltre, su fino ad Agostino – richiamava fin dai suoi anni giovanili. Del resto, quando si esce dagli spogliatoi per giocare il secondo tempo e la partita sta a favore sull’uno a zero, è pericoloso affidarsi al catenaccio. A meno di puntare, rischiando, su uno striminzito e fortunoso pareggio.

Le partite si vincono a centro-campo e mandando in gol le punte, con gli assist del caso.

Domenico Galbiati

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