E’ dura a morire la pervicace ossessione del bipolarismo che sta soffocando la libera articolazione democratica del Paese, se anche Luciano Violante, politico di lungo corso e di grande esperienza istituzionale, di fatto lo ripropone, sia pure evocandone una lettura meno banale e culturalmente più sofisticata, ricorrendo, cioè, a due categorie – repubblicani e liberali – che sostanzialmente riconduce alla polarità “destra-sinistra”, pur cercando di riverniciarne l’impianto.

La consapevolezza dei “doveri” da una parte, la rivendicazione dei “diritti” dall’altra, per dirla in estrema sintesi e, quindi, con tutta l’approssimazione del caso. Ancora una volta siamo alle prese con la presunzione di imbragare il Paese, costringendolo forzosamente ed a suo dispetto in un corsetto preformato e rigido che in nessun modo dà conto delle mille articolazioni che arricchiscono quel pluralismo che non si vede perché debba arrestarsi alle soglie della sua traduzione sul piano politico.

E’ comprensibile che una società, la quale  – come sostiene giustamente Violante – oggi è ben più difficilmente governabile di quanto non fosse in precedenti stagioni, si ponga il problema, appunto, della “governabilità”, ma non può pensare di risolverlo a scapito della rappresentanza.

Non è la prima, infatti, a garantire la seconda, ma, come suggerisce l’ordine logico delle cose, e’ vero, semmai,  il contrario: una schietta espressione della rappresentanza assicura le condizioni preliminari per la costruzione di un “governo” autorevole.

Attraversiamo una fase storica di trasformazioni imponenti che già si stagliavano al nostro orizzonte ed ora irrompono sulla scena della pandemia.

Non è forse il momento di aprire nel Parlamento e fuori, nei crocevia di una società civile evocata al “pensare politicamente”, pur al di fuori di una esplicita “militanza”, un confronto che sia anche molto crudo, se vogliamo, purché consenta di intenderci circa la direzione che intendiamo o, comunque, vorremmo imprimere all’evoluzione del Paese?

Non è forse il caso – si potrebbe dire – di restituire l’Italia agli italiani, a cominciare da una legge elettorale proporzionale che permetta al popolo di esercitare francamente la propria sovranità, affermando con schiettezza il proprio orientamento politico a fronte di una pluralità di opzioni, ciascuna delle quali si offra nella evidenza del proprio radicamento storico e culturale?

Senza gli infingimenti che nascono  da “fusioni”, cartelli elettorali, schieramenti precostituiti, che intendono sostanzialmente preordinare un determinato quadro politico, il quale, in qualche modo, prescinda, per quanto possibile, dal responso elettorale per rispondere, piuttosto, a supposizioni politologiche?

E se “populismo” e “ sovranismo” nascessero anche da un vulnus che, con tutte le migliori intenzioni, abbiamo inferto alla libera e piena espressione della “sovranità (che) appartiene al popolo”, cosicché, negli alambicchi delle nostre manipolazioni, ne abbiamo distillato dei surrogati indigeribili?

Non è forse il momento di un atto di fiducia in quella “saggezza” del popolo, che l’elettorato non manca mai di manifestare quando la responsabilità del voto sta espressamente in capo alla singolarità della persona nel pieno esercizio del suo diritto di cittadinanza?

Il timore nell’uno e nell’altro campo che, a quel punto, a vincere sia necessariamente lo schieramento avverso, basta a giustificare preventive operazioni di “ingegneria del consenso” che finiscono poi per legittimare percorsi che possono perfino giungere all’indecenza del “Porcellum”?

C’è chi teme giustamente la frammentazione della rappresentanza ed i suoi effetti nefasti, a fronte della temuta incapacità delle forze politiche ad abbandonare il balcone delle declamazioni stentoree, per entrare nel perimetro delle mediazioni oggettivamente necessarie.

Non ci sono soluzioni semplici per casi complessi e bisogna pur mettere in conto una certa fase di “selezione darwiniana” che provvederà a chiarificare il campo, negando la sopravvivenza per incompatibilità ambientale a quelle forze che si rivelassero non adatte alla “nicchia” ecologica di un confronto politico non pregiudiziale e pretestuoso, bensì  ragionato, oggettivo, aperto secondo le regole della convivenza democratica.

Se, al contrario – vale su ambedue i fronti del bipolarismo coatto – si immaginano accrocchi tra culture politiche diverse, addirittura storicamente alternative o almeno dissimili e dissonanti, non si costruisce una forza politica, ma tutt’al più un aggregato elettorale e la politica scade al livello banale di un empirismo che si risolve in una prassi occasionale, laddove avrebbe bisogno di ricondursi , invece, ad una filosofia, senza la quale nessuna “visione” è così fondata da reggere l’urto del cambiamento aggressivo che ci sovrasta.

Violante ha ragione quando sostiene che “destra” e “sinistra” persistono, senonché appaiono, in un certo senso,  sempre piu’ funzionali l’una all’altra, come se ciascuna delle due non avesse in sé la ragion sufficiente ad esistere, per cui, a tal fine, dovesse ravvisare nella contrapposizione all’altra  la ragione necessaria della propria identità.

Ne consegue che la reciproca delegittimazione, l’incomunicabilità e lo scontro pregiudiziale finiscono per essere la cifra ineludibile e la parlata quotidiana di un discorso tra sordi. Il tutto come se ciò che pur le distingue fosse funzionale ad una sorta di “condominio”, ad una coabitazione protetta nel segno di una democrazia addomesticata. Non a caso, anche nella stagione dei più furiosi contrasti, da nessuna delle due parti mai è stata posta in discussione la logica bipolare.

Resterebbe da dire del mitico ”centro”  e della pretesa che molti coltivano di incunearlo, più o meno forzosamente, nel sistema  così com’è, cercando tra ”destra” e “sinistra” dove si possa individuare una fessura da cui scorgere l’opportunità di qualche strapuntino.

E poiché questa opzione del “centro” viene, per lo più, posta in capo ai cattolici, dove sta scritto che la loro cultura politica popolare e democratica debba necessariamente rassegnarsi o al ruolo ancillare lungamente esercitato  o subito da quasi tre decenni a questa parte oppure, tutt’al più, ad un compito di interposizione, più o meno mediana, tra le due ali dello schieramento?

In effetti la parola del “centro” non è forse fatta e strafatta? Non è soffocata da una over-dose  di uso improprio che l’ ha sciupata e resa sostanzialmente equivoca ed inespressiva? Non è meglio che i cattolici, nel solco della loro tradizione di pensiero, se ne sono capaci e se ne hanno voglia dicano la loro senza preoccuparsi di stimare – regolo calcolatore alla mano – se le posizioni che intendono esprimere rispondano o meno a quella “medietà” che è percepita come di fatto consustanziale al concetto di “centro”, quasi che la “moderazione” – questa sì da preservare come metodo e garanzia di efficacia di ogni azione politica – debba intendersi come sinonimo di prudente ed ossequiosa equidistanza?

Vogliamo intrufolarci nel sistema così asfittico com’è o piuttosto concorrere a “trasformarlo” per ricreare le condizioni di una dialettica politica finalmente libera ed aperta? E’ sempre vero che “in medio stat virtus”? Spesso l’evoluzione del linguaggio di uso comune è molto istruttiva. Perché, ad esempio, quella “mediocritas” cui Orazio si rifaceva nel senso aristotelico della “virtù mediana”, al punto di definirla “aurea”, è via via scivolata a significare il grigiore della “mediocrità”, come la intendiamo oggi nel nostro lessico?

Come se certe parole avessero in sé un tarlo che le rode, se appena vengono impiegate malamente. Smettiamola, dunque, di centellinare le nostre posizioni così che rispettino l’ossessione del “centro” e diciamo con franchezza il nostro avviso.

Un altro aspetto di grande interesse dell’ articolo di Luciano Violante, ospitato da “Repubblica” nei giorni scorsi, concerne il suo invito alla sinistra o almeno l’auspicio perché riscopra il versante dei “doveri” e lo assuma come proprio connotato di fondo.

E’ una sfida importante e sarebbe bene, per sè stessa e per il Paese, che la sinistra seriamente la facesse sua dopo aver dissipato, negli ultimi decenni, la propria originaria vocazione popolare, inseguendo la cultura  del cosiddetti ”diritti civili”, fino ad essere assorbita in una logica individualista che poco o nulla ha a che vedere con la sua storia, la sua ispirazione ed i tratti essenziali della sua stessa identità.

In fondo, raccoglie ciò che ha seminato e se la deve prendere solo con sé stessa se mette insieme più voti ai Parioli piuttosto che a Tor Bella Monaca, tra la Scala e via Montenapoleone piuttosto che a Quarto Oggiaro o alla Bovisa.

Domenico Galbiati

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