Un paio di generazioni fa noi, da bambini anni ’50-60 non si era soliti giocare con i nonni, bensì con i coetanei. Io ho avuto la fortuna di fare compagnia a mio nonno materno, Michele, solitamente il sabato pomeriggio per giocare a scopa, scommettendo virtualmente una moneta da cento lire (se vinceva Lui mi tranquillizzava subito, dicendomi “me li darai la prossima volta”) e ascoltando i suoi, nostalgici racconti di emigrante. Il più affascinante, incancellabile, era quello in cui descriveva il suo viaggio alla volta dell’Argentina (partenza 1898, se non sbaglio), lunghe settimane di navigazione e finalmente l’incontro con il fratello maggiore, Giuseppe, enologo, che lo attendeva a Buenos Aires; e poi la narrazione del viaggio in treno, magico e con gli occhi di commozione, lungo le Ande per raggiungere la città di Mendoza, ove avrebbe lavorato sodo per nove anni, prima di fare rientro in patria, a Napoli nel 1907, dopo aver raggranellato un bel  di danaro con tanta fatica ed una vita decisamente spartana.

Mi piace questo incipit non solo per ragioni affettive e morali, di gratitudine per tutto quello che mi è stato tramandato saggiamente, bensì per introdurre il tema odierno in modo pragmatico, chiedendomi in buona sostanza: come potrei ignorare o peggio rinnegare il passato, vissuto dai miei avi (anche nonno Nicola, paterno, “emigrò nell’altra Italia” a Milano e sempre in cerca di fortuna)? Historia docet ci è stato insegnato al liceo classico ed ovviamente la locuzione di ciceroniana memoria di quella che è la magistra vitae non ha soltanto un significato di dimensioni filosofiche, trascendentali o universali, ma anche in contesto umano, familiare e sociale nel quale ci siamo abbeverati e siamo cresciuti all’insegna del lavoro e del rispetto umano come fonti di sostentamento economico e di progresso civile, in cui a determinati doveri corrispondono altrettanti diritti.

Il popolo italiano ha inondato con generosità e solerzia il pianeta terra, contribuendo con un vero e proprio “esercito” di 27 milioni di connazionali alla crescita di numerosi Paesi dell’America del sud, prima, e del nord poi, a cavallo tra l’800 e i primi decenni del ‘900; successivamente, anche in Europa e in altre regioni del mondo, generalmente facendosi rispettare, stimare ed amare, in virtù di quelle caratteristiche che ci contraddistinguono, tra cui una spiccata religiosità cattolica.

Ed è proprio ad essa che ritengo giusto richiamare un più profondo senso di umanità che, negli ultimi anni, è andato scemando a causa di una sorta di martello pneumatico, multimediale e quotidiano, del filo-leghismo parlante allo “stomaco” delle persone senza alcuna memoria della storia di milioni di italiani che, appunto, vennero accolti, integrati e poterono mantenere decorosamente le proprie famiglie, bisognose di tutto.

Ciò premesso, è davvero auspicabile che l’autorità politica non trascuri, appena possibile, la valenza riguardante la questione delle migrazioni nel suo complesso, foriera di distinti e apparentemente opposte motivazioni/finalità, ovverosia:

a)      Riesaminando, riordinando e riformando, nell’ambito di un Testo unico (da affidare al vaglio di Tecnici legislativi, come il sottoscritto), che accorpi e disciplini anche gli istituti dell’asilo, dell’adozione, dell’affidamento e della tutela dei minori stranieri non accompagnati, la “legge Bossi Fini” e le tante disposizioni normative e regolamentari, vigenti attualmente, affinchè si disponga di un quadro legislativo più snello, accessibile e funzionale, con una mens legis non criminalizzante, in grado di tutelare e riconoscere i beni e i principi primari della persona, non che nell’interesse dello Stato a garantirsi la necessaria manodopera in settori, come quello agricolo, molto bisognosi;

b)      Restituendo spessore, valore e dignità culturale al fenomeno mondiale delle migrazioni (specialmente ai flussi dall’Africa e verso l’Europa da parte dei ns. connazionali), al dialogo culturale e inter-religioso, quindi ad una dimensione cosmopolita delle nostre città, con un processo di modernizzazione del nostro modus vivendi e di un certo, malcelato provincialismo, anche in modo da restare coerenti ai sani principi di un’etica civile e responsabile, oltre che religiosi, ispirati al bene del prossimo, a prescindere dal colore della pelle e considerando che “la razza umana è una sola” (A. Einstein).

Mi viene, peraltro, il dubbio se sia stato fatto abbastanza, istituzionalmente parlando, per conservare, salvaguardare, promuovere e valorizzare quel patrimonio di documenti, testimonianze, fotografie e corrispondenze che costituiscono la memoria storica dell’emigrante, includendo per competenza l’editoria, gli organi dell’informazione e della comunicazione pubblica, non ultimo il mondo intellettuale e accademico nel dovere morale e storiografico di cui trattasi, anche tenuto conto della grande entità del fenomeno: n. 128.000 italiani espatriati nel 2019, n. 5,3 milioni di residenti all’estero. A tal riguardo, va opportunamente sottolineato che il Dipartimento (o direzione generale?) per gli Italiani nel mondo non dà segni di vita alcuna da quando non esiste più la figura del Ministro senza portafoglio “ad hoc”, quasi fosse un impegno personale dell’on. Tremaglia che, bisogna rendergliene atto, dedicò buona parte del suo impegno a tal fine.

Il dubbio su menzionato è supportato, in effetti, dalla constatazione per cui gli organi statali non hanno investito risorse organizzative, nè finanziarie al fine della realizzazione di un Museo storico dell’Emigrante, il quale esiste invece nella piccola Repubblica di San Marino; e nel contempo, non si può sottacere l’importanza del Museo regionale dell’emigrante “P. Conti”, ubicato a Gualdo Tadino (Pg), che attesta la propria validità e utilità in assoluto sia sotto il profilo della documentazione acquisita, sia ai fini didattici per le giovani generazioni.

Sarebbe ottima cosa se anche l’Ufficio Migrantes della Chiesa cattolica, (con il quale l’anno scorso s’è promosso ed organizzato un importante convegno sull’accoglienza e i minori stranieri a Montecitorio), voglia estendere la sfera d’attività istituzionale, oltre al tema dell’immigrazione, ad occuparsi dell’argomento, in modo speculare, che investe tanti connazionali, necessitati ad espatriare.

Indubbiamente la competenza primaria ed essenziale, affinchè il nostro Paese possa dotarsi di un museo statale “ad hoc”, va riservata ai Ministeri degli affari esteri e dei Beni e attività culturale, sì da svolgere – appena sarà possibile – una funzione culturale e istruttivo di alto rilievo sociale.

In ultima analisi, l’argomento in esame potrebbe apparire, da una lettura superficiale, fuori luogo in questo momento in cui non si parla ovviamente che di sanità, ricerca scientifica e crisi economica; ma d’altro canto il ragionamento va collocato in una dimensione di cultura politica e senso dello Stato ad ampio spettro, che vada oltre la “governance” dei piccoli passi e delle risposte alle situazioni emergenziali. Una “grande potenza” che comunque è l’Italia, appartenente al cd. G7, dovrà pur dimostrare di possedere la capacità, le competenze e le norme ordinamentali atte ad affrontare, discernere e decidere in modo da dare soluzioni e stilare paradigmi – anche in concerto con il Vaticano e le altre confessioni religiose – in materia di migrazioni e tematiche affini, “tout court”, guardando tanto all’aspetto degli extracomunitari, quanto ai profili in uscita, con una “governance” che superi le caratteristiche della transitorietà o delle necessità contingenti.

Gli scopi ulteriori, di conseguenza, sarebbero un’inevitabile, maggior considerazione sia nell’ambito del consesso internazionale, sia in ambito U. E. con un taglio moderatamente nazionalista, fortemente umanitario e progressista che supererebbe qualsiasi, sciocca polemica definibile “sovranista”.

Michele Marino

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