Il pronunciamento della Corte Suprema tedesca ha fatto clamore. Non poteva essere altrimenti. C’è, comunque da notare che solo in Italia e in Germania gli organi di comunicazione l’hanno enfatizzato come hanno fatto. E’ come se fossimo sempre un po’ rimasti, insomma, alla semifinale dell’Atzeca del 1970. Solo che questa volta molti tedeschi il 4 a 3 ce lo vogliono restituire.
In realtà, i rapporti tra germanici e italici sono molto, ma molto più ricchi di quel che non appaia nel leggere soprattutto i “fogliacci” della stampa popolare tedesca o i nostri giornali politicamente di parte.
Non c’è bisogno di finire a citare il peso del “Gran tour” in Italia nella formazione dell’intellighenzia e delle classi culturalmente evolute tedesche dal ‘700 in poi. Basta ricordare un po’ più prosaicamente il gran consumo di cibo e moda italiana nella Germania moderna o, al contrario, la ricorrente pacifica “calata” al di sotto delle Alpi dei discendenti dei Lanzichenecchi. Finiscono per affollare le nostre città d’arte, i nostri laghi, le nostre spiagge marine. Sono soldi in entrambi i casi che incassiamo noi. Così come, altri soldi incassano tantissime aziende italiane che vendono prodotti di qualità in Germania o assicurano le sub forniture a quelle tedesche.
Insomma, la questione è un po’ più complessa di come la si presenta in queste ore sui giornali che, gira e rigira, continuano, al di là e al di qua delle Alpi, a lavorare per quanti hanno interesse a distruggere l’Europa.
E’ soprattutto la questione europea ad essere complessa e non verrà certo risolta subito, in un modo o in un altro, a seconda di come la Corte Suprema di Karlsruhe concluderà il proprio giudizio, al termine dei tre mesi concessi a Governo e al Parlamento di Berlino per ottenere dalla Bce i chiarimenti necessari.
Intanto, una prima risposta è giunta dalla Commissione europea, guarda caso guidata da una tedesca, con la riaffermazione esplicita dell’assunto che ” la primazia del diritto Ue e il fatto che le sentenze della Corte di Giustizia dell’Ue sono vincolanti per tutte le corti nazionali”. Ci pensa la Bce a precisare: la Corte Ue ha stabilito nel dicembre 2018, che la banca centrale europea “agisce nel suo mandato”.
Tutto già risolto, allora? Neppure per idea.
La sentenza della Corte germanica conferma una cosa che diciamo da tempo: i Trattati devono essere rivisti. Probabilmente sono stati scritti non tenendo in considerazione taluni aspetti che riguardano le giurisdizioni di alcune nazioni. Il compianto professor Guarino sosteneva che, anche per quanto concerne la Costituzione italiana, ci sarebbe stato un po’ da discutere.
Quelle carte vennero tanto solennemente firmate in un contesto lontano, storicamente e praticamente parlando.
E’ cosa forse più sostanziale, esaminando politicamente la cosa, che in Germania si sta formando un fronte di destra intenzionato ad utilizzare gli aspetti finanziari per mettere in discussione ben altro.
Di che si tratta? Dell’Europa istituzionale ed economica che oggi conosciamo. In realtà, più corretto sarebbe parlare di tante Europa.
E’ più comodo limitarsi alle sue criticità in campo economico e finanziario. In particolare, per quanto riguarda il Debito pubblico. Così si può allegramente dimenticare che c’è l’Europa della Pace e della cooperazione tra popoli, gli stessi che hanno fatto versare fiumi di sangue l’un l’altro per circa due millenni. C’è quella che ha costruito un sistema di garanzie e di diritti, pubblici e privati, e armonizzato l’amministrazione della Giustizia attraverso l’oramai consolidato Spazio giuridico europeo. Esso serve a risolvere le controversie tra cittadini e aziende di nazioni diverse, superando quelle differenze di giurisdizione che impedivano l’erogazione della giustizia giusta, bloccavano in taluni casi i commerci, gli scambi di prodotti e di persone.
C’è l’Europa della tutela del consumatore e del fruitore di servizi. Ancora molto da fare, ma pensiamo a quanto noi italiani saremmo ancora più indietro nel riuscire a far rispettare i nostri diritti di fronte allo strapotere di produttori e venditori.
C’è l’Europa dello sviluppo scientifico, della cooperazione tecnologica, dello scambio delle conoscenze e del patrimonio digitale. C’è quella che sta ancora operando per dare al Vecchio continente infrastrutture degne della modernità e punta ai processi di convergenza e coesione economica e sociale e, quindi, alla fuoriuscita delle aree depresse dalla depressione. Che poi noi italiani non si sia riusciti a fare tutto quello che avremmo potuto fare nel Mezzogiorno e nelle Isole non è certo addebitabile ai tedeschi o agli olandesi.
C’è poi un’altra Europa che molti, soprattutto in alcune aree del Nord Italia, dimenticano. Quella del tanto criticato allargamento a oriente dell’Unione. Che poi è quella della nostra più importante delocalizzazione. Non so più il numero esatto di aziende venete che operano in Romania e in altre aree dei paesi ex comunisti. Sono andati lì per grazia ricevuta? Inutile mostrare il palmo vuoto di una mano, mentre si prova a nascondere quello dell’altra.
Noi italiani, in ogni caso, non riconosciamo mai i nostri errori nei confronti di Bruxelles, o quelli compiuti a Bruxelles. Questa debole, ma al tempo stesso forte capitale del Vecchio continente vive certamente di burocratizzazione ed anche di sprechi. Basta riferirirsi agli esagerati emolumenti che ricevono mensilmente dirigenti apicali comunitari e semplici dipendenti. Molto ci sarebbe da dire anche sulla cavillosità con cui vengono concepite norme e regolamenti. In molti casi vissuti come ottusità nordica o vera e propria prepotenza legislativa: ricordiamo i polemici casi del “calibro della zucchina” o dell’ostilità contro il nostro lardo di fossa. Insomma, tanta idiozia, o che a noi appare tale. E magari avremmo da ridire sul fatto che ai friulani è impedito di chiamare, come è stato per secoli, un loro vino bianco, tra l’altro buonissimo, Tocai per le insistenze degli ungheresi. Noi continuiamo a chiedere l’incremento delle difese delle nostre eccellenze alimentari, come il prosciutto o il parmigiano.
Insomma, questioni parziali, ma importanti questioni. Se male affrontate, se strumentalizzate, fanno perdere di vista il quadro complessivo, la sostanza del percorso europeo che, non solo per me, resta invece da difendere e, addirittura, da consolidare. Sapendo che cosa?
Gli Usa sono diventati stato sovrano il 4 luglio del 1776. Quasi tre secoli da quando il nostro Caboto era sceso a terra, primo europeo a farlo, là dove si trova oggi quella penisola che chiamiamo Florida. Accadde nel corso di una delle sue famose e originali esplorazioni compiute seguendo l’andamento della costa, al punto che oggi tutti i marinai del mondo parlano di cabotaggio.
Dopo quel 4 luglio è stata un susseguirsi di aggregazione di stati, di cui hanno fatto le spese soprattutto i pellerossa e gli schiavi strappati dall’Africa. C’è stata la sanguinosa parentesi della Guerra civile americana: provocò il più grande bagno di sangue di proporzioni gigantesche dell’era moderna con circa 750 mila morti. La segregazione razziale è stata, in ogni caso, ufficialmente abolita solamente dal Civil Rights Act del Presidente Johnson nel 1964.
Lungo, dunque, il cammino per gli americani. Non si comprende, anche se oggi il tempo è accelerato, perché quello degli europei a diventar davvero un tutt’uno debba essere meno accidentato e più breve, ancorché meno sanguinoso.
Vorrei concludere queste mie modeste riflessioni con il ricordo di alcune valutazioni che Albertino Marcora faceva a noi giovani democristiani che egli aveva l’amabilità d’incontrare ogni tanto a cena a Roma tanti anni fa, allorquando era ministro dell’Agricoltura. Anche a quel tempo c’erano discussioni, contrasti e frizioni. In particolare, in materia agricola dove francesi, olandesi e danesi la facevano da padrone in campo di allevamento e produzione di latte e burro.
“ Con quali armi mi presento dinanzi a loro- ricordo grosso modo quello che disse una sera Marcora- per chiedere vantaggi in campo agricolo quando a noi hanno dato tanto in tanti altri campi”. Era allora di fresca cosa la costruzione dell’impianto siderurgico di Taranto, le banche italiane cominciavano ad affacciarsi seriamente oltre confine, grandi gruppi industriali italiani avevano le loro esigenze, stringevano alleanze produttive e finanziarie a Parigi, a Londra e a Berlino. Tante altre cose accaddero. Mai raccontate esaurientemente. Forse, verrà il tempo in cui qualche storico dell’economia avrà la capacità di elaborare il tutto scientificamente.
Dunque, nessuno sottovaluta l’importanza del Mes e della necessità che molti paesi hanno di vedere allentati i criteri imposti dal liberismo sfrenato dall’Europa del Nord. Nessuno sottovaluta che i 36 miliardi ottenibili attraverso il Mes, comunque il presidente Conte parla di una necessità complessiva prevedibile di 450 miliardi, senza che queste benedette “condizionalità” ci stringano, invece di allargare, il cappio attorno al collo.
La strada maestra, però, resta solo una: quella della trattativa e del compromesso. Da ricercare con intelligenza, sana difesa degli interessi nazionali, cioè quelli legati all’interezza del Paese e non a sole sue parti. Un compromesso da trovare non da soli, ma assieme ad altri paesi europei con i quali sia possibile concorrere, con lungimiranza, a salvare quest’Europa che ci serve come non mai.
Giancarlo Infante