Nell’ Italia ancora travagliata dalla pandemia si aprirà tra poco la campagna elettorale per le elezioni amministrative, in una fase in cui la partecipazione al voto sta raggiungendo minimi storici, come si è visto alle elezioni suppletive di Roma ( l’11, 33% degli elettori!). Le elezioni amministrative comunali saranno dunque un test importante in vista delle politiche del 2023.

Da tempo ormai siamo abituati a pensare che, nella società del rischio, dell’incertezza e della degenerazione dei partiti, i governi che meglio funzionano sono quelli che devono rispondere solo ai “tecnici” e che sono liberi dai condizionamenti  di politica e partiti. D’altra parte, a livello locale, ci siamo assuefatti, soprattutto a livello di comuni, ad amministratori anche preparati che, forti e legittimati dalla elezione popolare diretta, fanno un proprio vanto della loro indipendenza da vincoli di schieramento e da indirizzi “superiori”, a partire da quelli del partito di appartenenza, se c’è.  E’ sufficiente, in quest’ ottica, amministrare bene per fare politica, anche per fare la “politica bella”, quella che concretizza il pensiero e trasforma in positivo il territorio.

E’ naturale che questo modo di amministrare piaccia, anche perché  “libera” il cittadino da oneri e impegni partecipativi. Un po’ come se il cittadino dovesse operare la sua scelta democratica soltanto nell’atto di elezione-designazione. Una volta eletto il sindaco coi consiglieri, starà a lui dare realtà al programma; interventi e pressioni di partiti o associazioni sarebbero ormai controproducenti.  Del suo agire il sindaco risponderà a fine mandato. Sulla figura della persona del sindaco si concentra perciò tutta  l’attenzione dei partiti, anche col meccanismo delle “primarie”. Nell’intervallo tra le due elezioni il “manovratore” non andrà più “disturbato”. Il “manovratore” potrà accettare suggerimenti, anche trasversali, da chi lui  vorrà, non necessariamente dalle forze che lo hanno appoggiato.  In quest’ottica quasi di “investitura assoluta”  il sindaco- bravo amministratore è una figura che rassomiglia sempre di più ai “podestà” delle città medioevali. E’ un bravo amministratore che potrebbe andare  dovunque richiesto a svolgere la sua funzione. Potrà certo succedere anche che un “podestà forestiero” possa trovare, in una città che non è la sua,  il consenso di cittadini stanchi di amministratori ritenuti inefficienti o incapaci.   Ovviamente infatti  se l’alternativa è un  malgoverno locale, una incapacità, un’ incuria od una inefficienza insuperabili, questo amministratore andrà benissimo. Ma basta un “podestà forestiero” per superare la lontananza crescente dalle istituzioni? Basta una amministrazione efficiente per rispondere ai bisogni dei cittadini?

Certo, per molti, la distinzione tra amministrazione e politica è superflua o inutile.  In fondo, si pensa, la buona amministrazione non può non essere buona politica. Che bisogno c’è della politica, intesa come confronto dialettico e complicato  di forze partitiche con idee diverse spesso non compatibili tra di loro? Ed in fondo, anche un buon governo, anzi il miglior governo della Repubblica pare talvolta essere quello guidato dai “tecnici”, svolgendo i partiti solo un ruolo di collettori di consenso e poco altro. E’ una idea tutt’altro che peregrina e strana, questa, in un’epoca in cui il diritto amministrativo è onni-pervasivo ed il ruolo dello Stato legislatore è in difficoltà, sopravanzato per giunta dal ruolo della “governance” regolatrice come quella dell’ UE.

C’è un problema però. La politica, in effetti, non è amministrazione. La politica, la cui forma di espressione più alta è il governo, è la dimensione che  individua i fini. L’amministrazione è invece quella che individua i mezzi per conseguire i fini, quella che cura nel concreto e nel particolare l’interesse pubblico, tutelato  da norme astratte e generali. Il “gubernator” è così il timoniere che indirizza la nave , l’amministratore   è invece colui che svolge una funzione di servizio,  un  servitore attento rispetto a chi governa .  Ed è pericoloso confondere i mezzi coi fini, porsi finalità non legittimate dalla legge o limitare l’ orizzonte decisionale di un organo alla considerazione dei mezzi. Noi  abbiamo operato tranquillamente questa limitazione, ma con esiti disastrosi, che solo la pandemia ha messo in piena luce. Potevamo ritenere che un buon governo fosse anche quello che riusciva a realizzare draconiane restrizioni di bilancio e mettere un freno alla spesa pubblica. Ma quel mezzo- il rigore di bilancio messo in atto per anni- ha realizzato un fine, magari non pienamente consapevole, disastroso, come quello di sguarnire la sanità territoriale, le difese e le garanzie della salute dei cittadini. Il confronto dell’incidenza dei posti letto ospedalieri sulla popolazione totale oggi in Italia è impietoso, e ci pone a fianco dell’ Albania, cioè ci pone fuori dal’ Europa.

Il problema viene da lontano, certo va detto. Noi Italiani abbiamo una amministrazione pubblica che ha una storia molto diversa da quelle degli altri Stati europei. Siamo stati a lungo sudditi, più che cittadini, rispetto agli apparati amministrativi del nostro Stato. Amministrare e governare sono stati, in Italia,  a lungo purtroppo confu­si tra loro, considerati erroneamente sinonimi. L’“amministra­re” è stato percepito come una facoltà di operare una scelta libera e responsabile, non come la cura in concreto del pubblico inte­resse vincolata nei fini. E talvolta forse è ancora così. E ciò che è peggio, nella società italiana, sin dall’inizio dello Stato unitario, il potere amministrativo, cioè il potere più vicino ai cittadini, a differenza di quello governativo, e, un tempo del potere del re, cioè dei poteri più lontani, è stato identificato come il potere più arbitrario, la fonte del peggior arbitrio pubblico. I romanzi sociali italiani di fine XIX secolo – pensiamo a “I Malavoglia” di Verga – hanno rappresentato con realismo la deferenza impo­tente e il servilismo umiliante dei cittadini che avevano di fronte poteri amministrativi locali autoreferenziali e prevaricanti – una sorta di “benefattori” di sé stessi – poteri spesso disprezzati, ma contemporaneamente accettati con rassegnazione, perché potevano servire o perché potevano nuocere.

Era questo il potere arbitrario perfettamente descritto nelle parole di  Pasquale Stanislao Mancini, deputato della Sinistra storica alla Camera e futuro Ministro di Grazia e Giustizia, nella discussione sul­la legge sull’unificazione amministrativa del Regno d’Italia, n. 2248/1865 : “Sia pure che l’autorità amministrativa abbia, e forse anche senza motivo, rifiutato a un cittadino una permissione, un vantaggio, un favore, che ogni ragione di prudenza o di buona economia consi­gliasse di accordargli […] sia pure che questo cittadino è stato di conseguenza ferito, e forse anche gravemente, nei propri interessi; che perciò? […] Che cosa ha sofferto il cittadino in tutte le ipotesi testé trascorse? Semplicemente una lesione di interessi? Ebbene, che vi si rassegni !”.

Questo potere amministrativo, cui ci si doveva sempre “rassegnare”, ha generato  una deferenza/sudditan­za, sopravvissuta a lungo nel tempo ( la Riforma Crispi del 1889 con l’istituzione della IV sezione del Consigli di Stato  non ha risolto, se non in minima parte, il problema a). Una sudditanza che è stata anche alla base  dell’“industria della violenza” (pensiamo alle mafie, in ampie parti del sud soprattutto), che si è fatta regime attraverso il fascismo, ed è sopravvissuta, in parte, anche all’introduzione della Costituzione, divenendo da ultimo clientelismo e corruzio­ne, che traevano forza proprio da questa auto-rappresentazione negativa del potere “più vicino ai cittadini”, e quindi da una auto-rappresentazione negativa dei cittadini stessi, spinti così a cercare vie d’uscita solo nell’illegalità. Ma una sudditanza che, dovunque, anche dove non c’era né mafia né illegalità, ha operato sempre in modo perverso, umiliando il merito, rendendo arrogante il potere, e scoraggiando le aspettative di vita,  di lavoro e di autonomia dei cittadini comuni.

E qualcosa di questo è soprav­vissuto persino alle innovazioni giuridiche di fine XX secolo (come quella della  Legge  241/1990 che ha introdotto nell’ordinamento una disciplina generale della p.a. ed il principio del giusto procedimento) ,  anche in conseguenza dell’influsso positivo dei principi giuridici provenienti dalla giurisdizione europea, come  quelli di certezza del diritto, di tutela dell’affidamento, di proporzionalità, di effettività della tutela, di prevenzione e precauzione ( questi ultimi in materia ambientale).

Per moltissimo tempo però un modo di amministrare “libero” nei motivi dell’azione e, solo astrattamente, vincolato a una idea vaga e generica di bene pubblico, ha condotto a ritenere più che sufficiente, a legittimare l’azione amministrativa, la semplice investitura elettorale degli organi amministrativi locali, specialmente quando le funzioni ammini­strative sono state attribuite al Comune come Ente più vicino ai cittadini (art. 118 della Costituzione come modificato nel 2001) e quando si è introdotta l’elezione diretta  dei sindaci.

Non si è dato peso, se non secondario, al secondo momento del­la vita democratica, oltre al processo elettorale, a ciò che precede e che segue l’elezione amministrativa, cioè alla dimen­sione della “partecipazione”, indispensabile oggi, ancor più che nel passato, a ponderare gli effetti di norme, sempre più numerose e “tecniche”, sulla vita concreta delle persone e dell’ambiente, e quindi a conformare l’azione concreta dell’amministrazione, la cui “discrezionalità” deve sempre significare contemperamento di interessi pubblici e privati e non semplice arbitrio. Le novi­tà introdotte in via legislativa, a partire dal 1990 e favorite dall’incidenza dell’azione comunitaria europea, hanno così tardato a entrare nel senso comune e a favorire la par­tecipazione democratica alla vita amministrativa. Anzi, per una sorta di eterogenesi dei fini, quelle novità sono state considerate più come una semplificazione “anti-burocratica” riduttiva del ruolo della pubblica amministrazione, che come una riforma vol­ta a sollecitare una miglior cura del bene comune attraverso il principio partecipativo. L’attività amministrativa è stata sempre più percepita come “ burocrazia” da eliminare, piuttosto che come “volto della Repubblica” che interagisce col  al cittadino.

Il cittadino comune, – che non ha idea dei suoi veri diritti in un contesto mediatico in cui si banalizza e involgarisce senza alcun ritegno il termine stesso di “diritto”- ha ignorato fino a poco fa   che,  alla luce dei principi costituzionali e di quelli del diritto euro-unitario, sono stati ormai scardinati gli usuali canoni interpretativi della giustizia amministrativa italiana, quali l’insindacabilità del me­rito dell’attività amministrativa e la prevalenza quasi automatica dell’interesse della pubblica amministrazione rispetto all’inte­resse del privato. Ha ignorato, o ignora, che egli disporrebbe di strumenti essenziali per controllare il potere amministrativo, commisurando il rapporto tra mezzi e fini, e quindi, utilissimi non solo per superare l’ata­vica e risalente sudditanza del cittadino italiano rispetto a tutto ciò che è pubblica amministrazione, ma anche per “destruttu­rare” corruzione, mafie e illegalismi vari, tagliando a monte le loro radici che stanno in un arbitrio pubblico fatalisticamente accettato, che degrada lo Stato agli occhi dell’uomo comune e predispone i singoli a rassegnarsi alla corruzione e alle mafie, considerati un endemico “male italiano”.  Quegli strumenti possono servire per garantire la legalità, senza dover contare sol­tanto sulla denuncia civile, sull’opera della magistratura e cioè sulla tutela che opera ex post, che opera spesso solo laddove c’è uno straordinario coraggio civile, a volte confinante con l’eroi­smo, come ben sappiamo nella terra di Falcone e Borsellino.

L’amministrazione ha dunque bisogno di essere guidata e “moderata” da una politica, che anche dai cittadini dipende. Potremmo dire che c’è  una politica  a monte, come anche una politica a valle che regolano e conformano l’amministrazione. Se non ci fosse questo non avrebbero senso la presenza di forze politiche nei Consigli comunali e forse la stessa designazione popolare del sindaco. Basterebbe una corretta selezione della persona da un albo professionale che elenchi i migliori city manager dell’ Italia.

La politica a monte è quella che dà senso e finalità all’azione amministrativa. Sono le norme legislative che la regolano e la rendono democratica  ma anche gli indirizzi politici che i partiti legittimamente cercano di imprimere ad essa, delegando funzioni o suggerendo linee di azione. Direi di più,  non solo gli indirizzi promossi dai partiti,  ma soprattutto dagli organi della Repubblica,  a partire dalla figura centrale del Presidente della Repubblica, che ha certamente poteri di impulso nella politica di attuazione o “inveramento” costituzionale.  Le parole del 3  febbraio 2022 del presidente Sergio Mattarella al suo secondo insediamento non possono essere ignorate.  Il presidente chiede “ una Repubblica capace di  riannodare il patto costituzionale tra gli italiani e le loro istituzioni libere e democratiche”. Possono gli enti locali, i comuni non prendere parte a quest’opera di ricostruzione della democrazia cui siamo stati autorevolmente richiamati? E’ chiaro che partiti, organi amministrativi, strutture organizzative, oltre che semplici cittadini, sono tutti chiamati ad adempiere questo compito. Bisogna restituire dignità alla partecipazione elettorale, alle sue modalità, bisogna porre fine al  vulnus costituzionale che ha spezzato o sciolto quel “nodo”, per dare  resilienza alle  istituzioni democratiche. Bisognerà per questo ridare dignità e ricompensa al “merito”, “ andarlo a cercare” e portarlo dentro le istituzioni. E’ semplice farlo, se si vuole.

La politica a valle rimanda all’irrisolta questione della partecipazione democratica così importante nella vita democratica ( e nella Costituzione) e così trascurata, nonostante i mutamenti normativi che dovrebbero renderla davvero operativa. La partecipazione democratica non è soltanto quella proposta dai referendum, istituto essenziale, ma troppo spesso manipolato strumentalmente per fini demagogici o comunque strumentali. A livello locale la partecipazione democratica- voluta dal Costituente ma solo in piccola parte realizzata- significa soprattutto la capacità di interagire della società civile e degli interessi collettivi e diffusi nei confronti dell’ Ente locale per migliorare e rendere effettiva la cura in concreto del bene pubblico. La sussidiarietà orizzontale prevista dall’art. 118, quarto comma    della Costituzione ( “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni  favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività  di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”),  e gli istituti de diritto di accesso agli atti, ivi compreso l’accesso civico nelle varie materie, sono istituti essenziali per realizzare il diritto alla trasparenza e  alla buona amministrazione. La  realizzazione di una vera trasformazione ecologica non può fare a meno di questa attenzione e cura al territorio che può provenire solo da chi quel territorio conosce e frequenta . Ma anche la risistemazione di centri urbani e periferie in una prospettiva di vivibilità effettiva ha bisogno di questa partecipazione.  In molte aree italiane le città sono ormai spazi degradati a “non luoghi”, non sono cioè più “luoghi antropologici”, essendo ormai privati di identità, relazionalità e storicità. Si ampliano i luoghi anonimi dello scambio mercantile tipici della società liquida e de-umanizzata, come i parcheggi, i supermercati, i centri commerciali, i parchi-gioco, le aree dedicate al turismo mordi e fuggi, le aree dedicate ai grandi eventi mediatici, gli spazi cementificati e sottratti al verde.

Per tutti questi motivi attivare una diffusa democrazia partecipativa è essenziale per migliorare le istituzioni locali per “riannodare i rapporti tra cittadini e istituzioni”.  Solo così possiamo restituire ai Comuni il “volto della Repubblica”e restituire alle città il “volto della vita”. Di quella vera e non finta.

Umberto Baldocchi

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