“….facci liberi e intensi….”, così recita la preghiera del “Ribelle per Amore”. Perche’ “intensi”? Cosa intendeva dire Teresio Olivelli, con questa espressione, in quella preghiera che rappresentava il suo dono, in quell’ultima Pasqua del ‘44, ai suoi uomini delle Fiamme Verdi?
“Intensi”, cioè, veri, autentici, umili, sinceri, coraggiosi, leali, ricchi interiormente, liberi, ma prima liberi “dentro”?
E perché Olivelli richiama uomini che, armi alla mano, mettono in gioco la vita per riguadagnare le libertà sul piano
civile, per riscattare l’onore e la dignità del loro Paese, all’ interiorità della loro coscienza?
Non dice forse che affinché possa essere rivendicata e possa esistere sul piano dei diritti, perché possa attestarsi in un ordinamento democratico, la libertà cui aspirano deve vivere, anzitutto, nella “intensità’”, cioènello spazio insondabile del “cuore” di ognuno? Quando si sostiene che bisogna “mettere la persona al centro”, in tale affermazione aleggia sempre un che di retorico o meglio di indefinito.
Infatti, da dove prendere le mosse, concretamente, per dare corpo e sostanza ad un tale impegno? Forse il cammino ce lo indica, appunto, la preghiera del Ribelle?
Dalle strade e dalle piazze deserte, da dove sembra fisicamente, platealmente, letteralmente cancellato il vecchio mondo, il nuovo inizio che ci attende deve radicarsi non nella rivendicazione, ma nell’offerta, in quella intimità con sé stesso dove ognuno custodisce e vive il valore in cui crede secondo la misura “intensa” della sua pienezza?
Del resto, Olivelli questa preghiera la pone sulle labbra di ragazzi che la vita la rischiano a vent’anni, né potrebbero farlo, soprattutto a quell’età, se non fosse naturale per loro vivere quella dimensione della trascendenza per cui in ogni gesto c’ e’ una domanda, anzi una eccedenza che vale al di là del momento in cui si pone, cosicché solo in questo “oltrepassare” se stessi, si acquista pienamente il senso e la consapevolezza del valore che si afferma.
Questa dimensione noi l’abbiamo smarrita. Viviamo in un mondo che, per quanto sia una voce insopprimibile, di fatto, lo voglia o meno, ne soffoca l’eco sotto le mille incrostazioni dell’utile e dell’affaccendarsi quotidiano.
Disseppellire questo sentimento, riguadagnare la prospettiva della trascendenza che e’ si’ connaturata alla visione religiosa della vita, ma, in verità, appartiene costitutivamente ad ognuno, e’ forse il primo presupposto da mettere in chiaro.
Il che ha molto a che vedere anche con la politica che rischia di incupirsi e di soggiacere al peso stesso della sua enorme responsabilità, in definitiva all’onere ed alla nobiltà della sua funzione. Ha, infatti, vitalmente bisogno di porre i suoi gesti in questo ampio arco, addirittura illimitato, dell’ “andare oltre”, per poterli distendere, in modo appropriato, nello spazio opportuno e nel tempo adatto al decorso storico cui attende la sua azione.
Insomma, anche la politica ha bisogno, declinata nelle sue forme, dello sguardo profondo e penetrante della trascendenza, dimensione talmente originaria ed insopprimibile, talchè, avendola smarrita, ci costruiamo feticci con i quali cerchiamo, senza riuscirci, di catturarla e circoscriverla nell’orizzonte di un’immanenza che non può contenerla.
E vi sono disagi, forse addirittura patologie, individuali e sociali che trovano la loro spiegazione ultima solo nelle pieghe di questa contraddizione. Ma tutto ciò rinvia ad un secondo presupposto necessario ad entrare, senza smarrirsi, in una fase nuova che prescinda dalle presunte certezze che si lascia alle spalle. E’ necessario che l’uomo recuperi o ricostruisca la stima che non ha più di se stesso, la considerazione alta di sé che legittimamente gli appartiene, eppure oggi appare pesantemente velata.
Un’interpretazione “riduzionista” e, dunque, unilaterale e mutilata della scienza; una declinazione “relativista” della ricchezza del pluralismo; un latente sospetto perfino nei confronti della propria ragione che pur viene esaltata, ma poi scivola nel “pensiero debole”. Un adattamento, un’ acquiescenza, forse una progressiva sudditanza nei confronti della tecnica che cammina più rapidamente della maturazione etica che dovrebbe guidarla, cosicché si amplia il gap che le separa ed, infine, è la prima a condurre la danza.
Almeno altri due presupposti si possono ricavare ancora dalla preghiera del “Ribelle”, nel momento in cui, sostanzialmente, cambia, deve cambiare il nostro stesso modo di concepire la vita. A quali libertà pensano questi combattenti credenti, quando associano l’ invocazione ad essere “liberi” alla preghiera rivolta al Signore perché li renda capaci di essere “intensi”?
Ad una libertà concepita come “diritto”, come conquista dell’ intero ventaglio dei quei diritti civili e sociali che potessero liberare loro stessi e soprattutto le generazioni che da allora si sono succedute fino a noi, da ogni tirannia che imprigiona il corpo e schiaccia lo spirito, ma anche da ogni conformismo del pensiero unico.
Ma soprattutto – ed è una lezione per noi di stringente attualità – alla libertà intesa come “dovere”.
“……facci limpidi e diritti……”, continua, infatti, la preghiera. “Limpidi” interiormente e “diritti”, schietti nella vita.
Coltivare, custodire, alimentare quotidianamente quella chiarezza interiore che ci permetta di comprendere le cose del mondo, quanto più possibile, per quel che sono, senza ombre, senza concedere nulla a suggestioni ideologiche oppure a posizioni pregiudiziali, spesso viziate di una emotività interessata e fuorviante, è un obbligo morale, un “dovere” nei confronti di noi stessi e degli altri.
La nostra ragione è o dovrebbe essere una lama tagliente, ma va sorvegliato da una istanza sovraordinata.
Per affilata che sia possiamo brandirla come una scure o piuttosto maneggiarla delicatamente come un bisturi e ne va di noi stessi e dei nostri interlocutori. Dobbiamo entrare in questa nuova età rielaborando a fondo il nostro concetto di libertà, chiarendo a noi stessi l’attesa ed, ad un tempo, l’impegno, il prezzo, il costo interiore, di una libertà autentica.
Così come dobbiamo riesaminare il rapporto necessario che corre tra la libertà di cui andiamo orgogliosi e la giustizia sociale; tra la nostra condizione di privilegio e la dignità negata a chi vive un disagio profondo. Una libertà che soffre, se così si può dire, un difetto di legittimazione quando convive con condizioni di ingiustizia che non possiamo più accettare.
A maggior ragione, se e quando le condizioni materiali che sorreggono la nostra libertà fanno tutt’uno o addirittura si fondano storicamente anche su divari di sviluppo e di dignità della vita che appaiono assurdi ed incolmabili.
Domenico Galbiati

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