Nel dare inizio ad una riflessione sull’umano, si accavallano pensieri, letture antiche e recenti. Da dove iniziare?
Una delle descrizioni più sintetiche e profonde della condizione umana, la ritrovo in un frammento del Salmo 64, 7: “Un baratro è l’uomo e il suo cuore un abisso”.
Questa definizione consente di coniugare il realismo delle Scritture con alcuni criteri interpretativi propri della psicoanalisi, una delle possibili strade che ci è possibile percorrere.
Chi per i più disparati motivi la frequenta e ad essa s’ispira, sa che la psicoanalisi dà una libertà di pensiero che permette di spaziare in ambiti diversi, di effettuare contaminazioni, di attingere a piene mani alle sorgenti della creatività e della fantasia; senza le quali non c’è pensiero nuovo, azione trasformatrice.
Freud e Jung in primis hanno impegnato mente e cuore nel descrivere questo strano “essere” che è l’uomo che ha nella relazionalità una delle sue caratteristiche irrinunciabili; dove non c’è relazionalità, infatti, non c’è possibilità di autonomia, crescita sana, autentico sviluppo. Ma non basta la relazionalità tout court, è necessario che possieda determinate caratteristiche senza le quali cade come un castello di carta quel moralistico “dover essere” che non tiene conto delle leggi dello psichico.
Non si è buoni, né lo si diventa solo in obbedienza ad una qualsiasi morale. Il piacere, il godimento giocano un ruolo fondamentale e ne sa qualcosa il bambino appena nato che cerca in tutti i modi di catturare con tutti i sensi una condizione di beatitudine più o meno continua, più o meno intensa, vissuta e fatta memoria nel periodo trascorso all’interno del grembo materno.
Nessuna idealizzazione a prescindere, ma comincia in questo periodo l’apprendistato per star bene con se stessi e nel mondo. Quasi completamente dipendenti da una madre: dalle sue fantasie, dai suoi pensieri, dalle sue emozioni, dalla sua condizione psicofisica; e dalla relazione che lei intrattiene con l’altro membro della coppia. E quindi nulla di facile e scontato; e la clinica ci da testimonianza di come non sia raro “scivolare” nel patologico.
Oggi più che mai dentro un reale fatto di sovrabbondanti immagini, di suoni e rumori costanti, di moltiplicazione di schermi digitali, abbiamo bisogno di riconquistare un nuovo rapporto con tutti i nostri sensi, di costruire “oasi di silenzio”.
In certi momenti non siamo in grado – per nostra costituzione – di sopportare troppa realtà e proprio per questo motivo ci difendiamo come possiamo; mettiamo e in atto consciamente ed inconsciamente operazioni difensive per “sopravvivere” non solo in condizioni di vita estreme, ma anche nell’ordinario di una vita continuamente esposta a sollecitazioni di vario genere. Già, conscio ed inconscio che “dialogano” incessantemente tra di loro, il più delle volte in modo nascosto e sotterraneo e la conoscenza delle loro trame impegna seriamente il pensiero.
In altre parole, non sempre volgere lo sguardo altrove, ritirarsi temporaneamente dentro una sfera più intima equivale ad indifferenza, disinteresse, narcisismo. Sostenere questa posizione significa sottrarre alle grinfie del moralismo il discorso sul bene la cui attuazione necessità di uno psichismo equilibrato e, secondo chi scrive, di una vita spirituale che non intrude e non interferisce.
Rimozione, dissociazione, scissione, proiezione, negazione sono alcuni dei più importanti meccanismi di difesa che il nostro apparato psichico usa per salvaguardare se stesso e la vita e non tener conto della loro azione o considerarli sempre e comunque qualcosa di negativo significa privarsi della conoscenza dell’umano che poco più di cent’anni di psicoanalisi hanno gettato nel cuore della riflessione e da cui non si può più prescindere.
Quando si attraversa un periodo difficile o si è stanchi, affaticati, usiamo, ora l’uno ora l’altro meccanismo per rendere sopportabile l’insopportabile, per espellere, per smembrare, respingere ciò che in quel momento avrebbe la potenza distruttrice di un esercito di soldati al galoppo contro un villaggio indifeso. Metafora della nostra condizione di precarietà e fragilità che interpella innanzitutto noi stessi, chi ci sta accanto e la comunità in cui siamo inseriti; che chiama in causa la funzione fondamentale dell’ascolto, forse la più importante e la più difficile da attuare. ”Bisogna avere pazienza e attenzione infinita, perché il suono leggero dei piedi delicati del ragno sulla foglia ci giunga all’orecchio” (Virginia Woolf).
L’ascolto attento salvaguarda dal giudizio facile, aiuta a cogliere la complessità della condizione dell’altro, gli permette un uso sano delle proprie difese che diventa patologico quando prevale un funzionamento rigido, fisso. Di questo “impasto” siamo fatti. Tutti. Nessuno escluso. C’è chi ne è consapevole e ci lavora sopra ed in profondità; c’è chi si colloca sul piedistallo e non vi scende mai.
Si può trascorrere un’intera esistenza ed aver soltanto sfiorato parti di sé importanti che sono rimasti per sempre dormienti, strenuamente impegnati a vigilare sulle mancanze dell’altro in modo ossessivo, erigere difese contro il fluire della vita, sempre in guerra col mondo, contenitore delle proprie proiezioni. Non potendo sopportare il negativo che è in sé, lo si espelle in modo massiccio. La presa sulla realtà viene allentata, forse, quando si dorme e forse neanche tanto; il sonno straordinario dono che la Natura ci ha dato; e all’interno di esso il sogno, manifestazione rutilante della mente al lavoro. Un buon sonno ristora, rifornisce. Una mente che sogna attinge a sorgenti profonde.
C’è anche una condizione clinica che forse più di altre descrive in profondità la fragilità di cui siamo abitati e la solidarietà di cui abbiamo bisogno, ed è quella della depressione; che può spingere fino al desiderio, alla ricerca e attuazione della propria morte. In poche parole viviamo di risorse interiori straordinarie, ma dentro un equilibrio fragile che necessità di cura e attenzione; e dello sguardo tenero e misericordioso dell’altro su di noi, che non significa evitare un’analisi approfondita, direi “spietata” delle contraddizioni e delle incongruenze che ci portiamo dentro. Fonte di solidarietà senza la quale non c’è comunità che sostiene e promuove. Senza tutto questo non c’è umanità.
Nel corso della nostra esistenza siamo chiamati a diventare monachoi, unificati. C’è un episodio delle Scritture bibliche che sintetizza bene, a mio avviso, questa dinamica ed è la parabola del buon samaritano, icona dell’uomo accogliente e solidale che esercitò pienamente la “carità dei cinque sensi”: per prima cosa vide colui che era in difficoltà. Si avvicinò e si chinò su di lui per guardarlo meglio. La prima cura fu uno sguardo attento, accogliente, solidale con la sofferenza di quell’uomo. E poi lo prese tra le sue braccia. Chissà cosa si dissero. Il resto venne dopo. In fin dei conti vide in lui una parte di sé. S’identificò, non scisse, non espulse, né negò. Possiamo immaginare che quest’uomo sognava spesso e tra i suoi sogni ci fosse quello di un’umanità, giusta, fraterna, solidale. A noi il compito di continuare quel sogno. Per quel che possiamo.
Giuseppe Laganà
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