Un autorevole editorialista ci spiega, da par suo, dalle pagine del Corriere, come oggi il nostro Paese – dopo la cassazione del referendum proposto dalla Lega – abbia bisogno o voglia di “centro”.
Giunge – obtorto collo – a tale conclusione dopo una analisi perigliosa in ordine alla democrazia – a suo dire “acefala” – della prima Repubblica e del proporzionale. Omette di spiegarci come una politica “acefala” abbia potuto gettare le solide fondamenta di cui vive tuttora la nostra democrazia e come abbia condotto, in tre, quattro decenni, un Paese sostanzialmente agricolo, devastato materialmente e moralmente dal fascismo e dalla guerra, a sedere tra le prime quattro o cinque potenze industriali del mondo.
Il Nostro la butta in corner, sostenendo che allora le cose stavano “cosi'” ed oggi, invece, stanno “cosà”. Il che vuol dire parlar d’altro. Un po’ come affermare che l’acqua è bagnata.
Ne deriva una chiara dimostrazione che la “politologia” è una cosa e la “politica” un’altra. Un’interpretazione “intellettualistica” delle cose del mondo, fondata su assiomi dati per veri una volta per tutte, cosicchè se ne possano derivare conclusioni inossidabili e certe, porta inevitabilmente a perdere il contatto con la realtà. Succede anche in altri campi.
Siamo umani e capita che ci innamoriamo talmente dei nostri punti di vista che giungiamo a negare l’evidenza dei fatti, pur di salvaguardarli, a dispetto dei santi. Ad esempio, nel rigoroso campo delle neuroscienze c’è chi se la cava semplicemente negando che la coscienza esista in quanto non rientra nei suoi pre-ordinati schemi mentali e, dunque, non riesce a darne conto. Figuriamoci se non succede in politica.
Il Nostro, a fronte del fallimento del “maggioritario” – che, se non erro, ha fortemente sostenuto – se la sarebbe cavata più brillantemente ammettendo onestamente di essersi sbagliato – in fondo, prima o poi, succede a tutti – anzichè inerpicarsi per ragionamenti astrusi.
Ad ogni modo, dunque, il “centro”.
Senonchè, ci sono parole talmente usate ed abusate che finiscono per essere talmente appesantite da equivoci da rendere ambiguo ed indecifrabile ogni discorso in cui vengano coinvolte. Potrebbero recuperare la loro freschezza solo in un universo mentale e concettuale diverso da quello in cui sono state irremidiabilmente sciupate. Insomma, avremmo bisogno di una rivisitazione semantica del nostro linguaggio per essere sicuri di sapere di cosa esattamente stiamo parlando, evitando di prendere fischi per fiaschi.
Queste parole – “centro” nella declinazione politica del termine, è una di queste – poiché, nell’economia generale di un linguaggio sensato, stridono, le trasformiamo in un che di “magico” e le utilizziamo per troncare un discorso tortuoso, fingendo di mettere un punto fermo, laddove, al contrario, i nostri ragionamenti rischiano di avvitarsi ed attorcigliarsi in una spirale inconcludente.
Fatichiamo a sottrarci all’idea che il “centro” sia il punto mediano tra due estreme, cosicchè, anzichè restare fermo, appare di fatto molto più ballerino di quanto si vorrebbe, dato che la sua effettiva posizione dipende dalla dislocazione liberamente variabile delle estreme.
Ne consegue che nel concetto di “centro” convivono l’idea che – obtorto collo – non se ne possa fare a meno e, nel contempo, un sottile spregio, come se si trattasse, in ogni caso, di un che di opportunistico e di sostanzialmente inerte; sì, un punto di equilibrio, ma nel senso di una caduta entropica al più basso livello di energia.
Eppure, in un altro universo mentale – oggi inattingibile, anzi agli antipodi della rissa incivile e quotidiana cui è ridotto il confronto politico – il “centro” potrebbe effettivamente essere la quintessenza della politica, ove la sapessimo intendere, come dovrebbe essere, il luogo in cui, sapendo leggere sapientemente tra le righe degli eventi, si conducono i fenomeni sociali ad un punto di composizione e di sinergia nel segno del “bene comune”.
A quel punto, la stessa”moderazione”, anziché apparire, come succede spesso, un traccheggiare incerto, timido ed inconcludente, assumerebbe il carattere di quel “feed-back” fisiologico che, negli organismi viventi, ne garantisce la armonizzazione delle funzioni e, dunque, l’omeostasi con l’ambiente circostante e la vita.
Ad ogni modo, finchè non saremo in grado di restituire a “centro” e “moderazione” l’onore che pur meritano lasciamo perdere le loro parole. Il rinnovamento della politica pretende un linguaggio nuovo, inedito, nuove categorie interpretative, nuovi concetti di riferimento.
Pensiamo piuttosto a come arricchire e rendere effettiva quella prospettiva di “trasformazione” cui allude, al di là del classico e tradizionale riformismo, il nostro Manifesto.
Domenico Galbiati

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