Il diritto alle cure mediche è da sempre uno dei cavalli di battaglia di chiunque si riconosca in una visione progressista e democratica della società. La nostra vita troneggia sulla vetta di una piramide costituita da un insieme di necessità. Alla sua base troviamo i bisogni primari e man mano che ci si approssima alla cuspide quelli che possiamo chiamare secondari; non sono meno importanti dei primi ma qualora non venissero soddisfatti la sopravvivenza della persona seduta sulla cima della piramide non sarebbe in pericolo; la qualità della vita certo ne patirebbe giacché i bisogni secondari comprendono per esempio il riconoscimento sociale, la possibilità di svolgere un lavoro gratificante, una relazione appagante con l’anima gemella: ma si può vivacchiare sia pure malamente in condizioni di solitudine, facendo un lavoro schifoso e circondati dal disprezzo universale. Se viene a mancare uno dei bisogni primari, quelli che stanno alla base della piramide dei bisogni, ci dice Maslow (Abraham Maslow, lo psicologo statunitense autore nel 1943 della Teoria della motivazione umanaA theory of human motivation) allora sono guai. Posso essere un artista osannato e strapagato con una moglie stratosferica e affettuosa ma se il tassello di base che si chiama salute del corpo viene meno tutta la piramide crolla miseramente. La stragrande maggioranza delle persone non è famosa, non è ricca, non ha una moglie o un marito stratosferici ma per lo meno deve poter contare sul soddisfacimento dei bisogni primari: il cibo, un tetto ove ripararsi e appunto la salute.

Non è questa la sede per ripercorrere dettagliatamente la vicenda della sanità pubblica in Italia dalla legge 296 (governo Zoli) alla trasformazione degli ospedali in enti pubblici (legge Mariotti 1968) sino all’istituzione del Servizio sanitario nazionale nel 1978 (su impulso del ministro della sanità Tina Anselmi durante il quarto governo Andreotti); ricorderemo che a inizio anni ’90 si verificò la regionalizzazione dei servizi sanitari e la scelta apparve in se stessa più che condivisibile: sottrarre i servizi più importanti all’abbraccio soffocante del moloch burocratico centrale appariva sinonimo di efficienza e maggiore democrazia. Tuttavia la regionalizzazione ha inciampato contro gli italici regionalismi se mi è concesso il gioco di parole. In alcune aree del Paese gli ospedali e la medicina territoriale funzionano (abbastanza) egregiamente e a costi accettabili, in altre i servizi sono inadeguati e i costi a carico delle finanze pubbliche esagerati. Un rimedio a questo stato di cose fu rappresentato dalla decisione di parziale ricentralizzazione con riferimento agli acquisti di materiale e medicinali non essendo accettabile che un medesimo cerotto costi 10 a Poggio Versezio e 100 a Roccacannuccia.

I problemi che storicamente affliggono il comparto della sanità pubblica nel nostro Paese sono stati analizzati durante un recente webinar dedicato disponibile in registrazione sul sito di Insieme (CLICCA QUI) cui volentieri rimando per uno specifico approfondimento.

Ma la sanità pubblica, come l’istruzione o la sicurezza, per citare tre ambiti in cui lo Stato democratico liberale moderno non può non svolgere un ruolo centrale, attraversa una fase di grande precarietà in questi tempi di conti pubblici da risanare, di bilanci che soffrono a causa delle spese eccessive o delle tensioni sui mercati finanziari e monetari internazionali; ricordiamoci sempre che è venuto meno, almeno per i Paesi europei, il paracadute della manovra del tasso di sconto: la sovranità sottratta alle Banche centrali nazionali non è stata devoluta integralmente a un’istituzione pubblica sovrana, la BCE, ma in certa misura ai mercati che decidono liberamente se acquistare o no i titoli di debito emessi dai singoli Stati determinandone il prezzo.

E fu così che i governi, di qualsivoglia orientamento, politici o tecnici che fossero hanno scelto le scorciatoie più agevoli: anziché una caccia agli sprechi, una laboriosa riforma della macchina burocratica, una riorganizzazione delle attribuzioni di responsabilità intesa a eliminare i troppi colli di bottiglia che rallentano i processi e li rendono costosi hanno affondato più o meno profondamente il bisturi su sanità, scuola e stipendi delle forze dell’ordine, il tutto sotto la copertura di un nome pudibondo che fa tanto top manager, la spending review.

E se l’assassino fosse anche da ricercare all’estero? Durante i decenni neoliberisti il tentativo di forzare la mano ai governi della vecchia Europa, e dei Paesi più fragili segnatamente, affinché si sbizzarrissero a colpi di privatizzazioni nei più diversi settori non è mai venuto meno e appare chiara la volontà di ridurre gli spazi della sanità pubblica a favore di quella privata. E qui il discorso potrebbe terminare, così, con un tocco di lepido populismo che fa fine e non impegna, il piagnisteo sterile sul welfare perduto, la malcelata invettiva contro i cattivi capitalisti, la Scuola di Chicago e il Washington consensus, senza dimenticare il doveroso sberleffo rivolto ai politici nostrani… Ma, parafrasando Wittgenstein, diremo che è meglio tacere di ciò di cui è inutile parlare.

Vorrei piuttosto esaminare pragmaticamente lo stato attuale delle cose. Rivolgiamo però ancora un fugace e ostile pensiero a uno degli ossimori più clamorosi dei nostri tempi ossia il neoliberismo assistito, quella pratica che consiste nel creare le condizioni favorevoli per la crescita della speculazione privata, togliendo di mezzo progressivamente tutti i presidi pubblici che ostacolano gli interessi degli investitori. Una contraddizione rispetto a quello che dovrebbe essere il principio cardine di ogni sano liberalismo economico – la concorrenza e la propensione al rischio – e comporta la necessità di disporre di una classe politica acquiescente, inadeguata o nel peggiore dei casi complice e corrotta. Ma non serve recriminare, torniamo all’oggetto di questo articolo.

Che la sanità pubblica sia stata penalizzata è certo, che sia costosa e difficile da ri-organizzare è innegabile; credo che, senza sposare le tesi di un certo estremismo monetarista e frugale, sia altamente consigliabile per ragioni di opportunità – lo spread sarà anche un meccanismo perverso ma è sempre lì in agguato – e di pubblica moralità rifuggire dagli sprechi. Keynes era una persona seria, gli fa un grave torto chi pensa, senza conoscerne il pensiero, che invitasse i governi occidentali a darsi alle spese pazze.

Nel corso del webinar di Insieme che ho citato, il professor Molteni ha sottolineato che la salvaguardia della Sanità universale è la precondizione etica alla base di tutti le soluzioni tecniche e operative che saranno adottate per rilanciare, nel segno dell’efficienza e della sostenibilità economica, il sistema. È questo un principio basilare e inderogabile.

Ma è una bestemmia sostenere che il modello cui dobbiamo tendere risieda in una sapiente miscela di sanità privata e di sanità pubblica?

C’è chi può permettersi di spendere una quota delle proprie entrate per curarsi. Ma, si obietterà, le cure sono estremamente costose (i medici sono abituati a percepire compensi al di sopra della media) e, nel caso dei ricoveri, la sistemazione in ospedale ancora di più. La sanità privata in quanto tale potrebbe essere accessibile soltanto da parte di chi è davvero ricco e non dal ceto medio benestante. Le cure erogate in regime strettamente privatistico a un anziano infermo rischiano di erodere e mandare in rovina i patrimoni familiari del ceto medio. Proprio per questo motivo ovunque nel mondo sono cresciute rigogliose le polizze sanitarie offerte dalle principali compagnie di assicurazione che consentono ai cittadini “normali” l’accesso a cure non direttamente erogate dal servizio pubblico.

In alcuni Paesi come gli Stati Uniti il comparto privato prevale in misura schiacciante, altrove i piatti della bilancia sono allineati: in Italia non abbiamo ancora raggiunto un punto di equilibrio cristallizzato, con la sanità pubblica che continua a subire erosioni progressive e il comparto privato che senza criteri consolidati si affretta a occupare sempre nuovi spazi di mercato (inutile arricciare il naso, così viene denominato il modello di domanda e offerta di prestazioni sanitarie). Ovviamente le assicurazioni hanno un costo non indifferente e le compagnie devono rispettare precisi e complessi criteri basati sulla statistica di rischio per garantire la tenuta del sistema ed evitare nei casi estremi la bancarotta. La gran parte delle polizze stipulate nel nostro Paese riguardano i lavoratori dipendenti. I datori di lavoro, molto spesso non motu proprio ma sulla base di un accordo sindacale stipulano un contratto quadro con un provider assicurativo di rilevanza nazionale: il dipendente a fronte di una modesta trattenuta sullo stipendio (la percentuale di costo più elevata è a carico della parte datoriale) può godere di una serie di prestazioni presso le strutture private convenzionate. Ogni prestazione sulla base degli accordi intercorsi (in genere la controparte assicurativa si confronta con una delegazione costituita da rappresentanti del C.d.A. aziendale e dei rappresentanti dei lavoratori) può essere soggetta a una franchigia più o meno alta che ovviamente rientrerà nel computo delle detrazioni di spesa quando il titolare della polizza compilerà la dichiarazione fiscale annuale.

Una coesistenza fra sanità pubblica e sanità privata potrebbe con i giusti dosaggi configurare una sorta di competizione virtuosa fra i due ambiti e insieme una complementarietà. Il fatto che una quota significativa delle prestazioni sanitarie complessivamente richieste in un anno dai cittadini transiti attraverso il settore privato potrebbe in un mondo ideale alleggerire il carico della sanità pubblica che, adeguatamente organizzata e foraggiata dal bilancio statale, sarebbe posta in condizione di assicurare un servizio di qualità a una platea di utenti sprovvisti di assicurazione o delle consistenti risorse economiche necessarie a pagare le prestazioni a prezzi di mercato.

Ma questa è la descrizione, appunto, di un mondo ideale. Nel mondo reale come stanno per davvero le cose?

Se consideriamo la realtà dal punto di vista degli utenti ci renderemo conto facilmente che essi patiscono le conseguenze di una condizione di sostanziale deregulation.

Vorrei spiegarmi con un esempio raccontandovi la storia di un’azienda immaginaria e della sua assicurazione sanitaria. Tutto inventato ma tutto reale, perché la vicenda trae origine dall’osservazione di tanti casi concreti e assume un valore paradigmatico.

Allora immaginiamo un’azienda, chiamiamola la “Turineisa”, solidamente ancorata a un territorio preciso ma ormai distribuita in Europa e nel mondo, presente in diversi ambiti merceologici, dai mezzi di locomozione ai trattori ai servizi finanziari, con alcune centinaia di migliaia di dipendenti. I quali fruiscono di un’assicurazione finanziata dall’azienda, relativamente alla percentuale più alta e, in misura inferiore, dal lavoratore. In una prima fase dell’assicurazione sanitaria beneficiavano soltanto le cosiddette alte professionalità, dirigenti e quadri intermedi ma grazie alle rivendicazioni sindacali la platea è stata estesa a tutti i lavoratori, operai e impiegati. Un maggiore numero di iscritti aumenta in misura estremamente significativa la massa critica dei premi su cui la compagnia può contare per erogare le prestazioni e negoziare con le strutture sanitarie private condizioni tariffarie più appetibili. Le richieste di prestazioni, è intuitivo, aumentano di conseguenza, il che impone alla compagnia un attento presidio degli equilibri appunto fra raccolta delle polizze e pagamento delle prestazioni sanitarie.

Il primo provider assicurativo si dimostrò estremamente generoso. I contraenti potevano recarsi presso i centri convenzionati semplicemente prenotandosi. Non era richiesta neppure una prescrizione del medico curante. I ricoveri presso le cliniche private non prevedevano alcuna franchigia, i pensionati, a fronte ovviamente di un esborso annuale più elevato essendo venuta meno per loro la contribuzione aziendale, godevano di un trattamento analogo a quello di cui fruivano quando erano ancora in servizio. A queste condizioni i conti dell’assicurazione rischiarono di sprofondare nel rosso più cupo e la compagnia decise di non rinnovare l’accordo. Fu scelto un nuovo provider il quale impose alcune condizioni: per prenotare una visita medica era necessaria la prescrizione del medico curante cui era chiesto di indicare chiaramente la patologia sospetta e si stabilì una franchigia a carico dell’assicurato. Poi anche con il secondo provider l’accordo non fu rinnovato e a esso ne seguirono altri. Le regole d’ingaggio si fecero via via più stringenti, ma il costo delle polizze non diminuì affatto; si decise di assegnare a una società privata che di nome (non di fantasia) fa Previmedical il compito di fungere da Authority centrale e di decidere di volta in volta se l’assicurato avesse o no il diritto a fruire della prestazione richiesta. I pensionati continuavano a versare un premio piuttosto salato in qualità di “prosecutori volontari” ma a loro spettava una gamma di prestazioni più limitata rispetto agli ex-colleghi in attività.

Ora poniamoci una domanda: in quale modo un sistema sanitario, pubblico o privato che sia, può conseguire il felice obiettivo di ridurre a monte le patologie e le conseguenti spese per affrontarle e curarle? Lo saprebbe anche un bambino: attraverso la prevenzione!

In effetti per un certo periodo la polizza prevedeva che i dipendenti della Turineisa si sottoponessero a un check up completo ogni anno. Ma dopo qualche tempo il check up venne abolito e sostituito da una decina di visite specifiche (chiamate comunque pomposamente check up) che potevano essere eseguite singolarmente soltanto una volta l’anno: ragion per cui uno screening completo del fisico dell’assicurato doveva per forza di cose articolarsi nell’arco di una decade. Inoltre, cosa inaudita, i check up furono del tutto aboliti per i soggetti più fragili e anziani, quei prosecutori volontari (i quiescenti) su cui grava per intero il costo della polizza.

L’authority divenne progressivamente più occhiuta, severa, cattiva. Le prescrizioni mediche che riportavano nel quesito diagnostico la parola “controllo” vennero sistematicamente respinte, l’accesso alle prestazioni si trasformò in una corsa ad ostacoli. Alcune terapie vennero escluse dalle regole di ingaggio: per esempio le sedute fisioterapiche non vennero più coperte in quanto secondo l’ultimo provider cui evidentemente mancava il senso del ridicolo si trattava di “atti medici”! Come se un’assicurazione rifiutasse di coprire le spese di riparazione della vettura incidentata perché “gli atti di carrozzeria” sono esclusi dalla polizza. Molti assicurati sconfortati pur senza disdire la polizza furono costretti a intasare il servizio pubblico che intanto era scivolato in una condizione impensabile solo in un recente passato, con tempi di attesa a dir poco indecorosi.

La vicenda della polizza riservata ai dipendenti della Turineisa rispecchia la parabola discendente di moltissime altre assicurazioni sanitarie integrative.

Insomma alla crisi della sanità pubblica si aggiunge il sostanziale fallimento della sanità privata, per lo meno della sanità privata su base assicurativa, la sola davvero sostenibile. Rimarrà sul campo soltanto il privato duro e puro? La salute si piegherà alle leggi inesorabili del mercato? Curarsi diverrà un lusso riservato a pochi privilegiati?

E lo sanno i politici? Benissimo organizzare manifestazioni per la sanità pubblica ma non rischiano di risolversi in mere esibizioni velleitarie? Non ne possiamo davvero più dei politici di ogni orientamento che s’intestano battaglie più o meno identitarie limitandosi a marcare il territorio piantando le proverbiali bandierine e abbandonano il campo lasciando che la sregolatezza favorisca le speculazioni senza eliminare il disagio che sperimentano ogni giorno i cittadini sulla propria pelle.

La battaglia del PD targato Schlein sulla sanità è in linea di principio pienamente condivisibile ma non appare adeguatamente articolata, si riduce a poche parole d’ordine che significano tutto e niente: temo che pochi esponenti politici abbiano contezza di tutto quello che ho sinteticamente raccontato nelle righe precedenti sullo stato reale dell’arte della sanità complementare (o integrativa che dir si voglia).

Per questo motivo li invito a riflettere e a elaborare , ciascuno sulla base della propria legittima prospettiva ideologica, una proposta di legge per regolamentare in modo rigoroso nell’interesse primario dei cittadini (ma anche a tutela delle compagnie stesse) l’insieme dei diritti e dei doveri che assicuratori e utenti devono rispettare.

La sanità pubblica si salverà attraverso un insieme di azioni che spaziano dalla revisione dei costi alla riduzione delle pressioni politiche che ne hanno fatto un terreno di conquista, dall’innovazione organizzativa assecondata da una sapiente transizione digitale all’eliminazione del numero chiuso nelle facoltà di medicina (ché i medici cominciano a scarseggiare!).

La sanità complementare “insurance based” dovrà essere rigorosamente regolamentata per legge: le polizze dovranno garantire un insieme di prestazioni certe, includendo quelle rivolte alla prevenzione e le strutture private impegnarsi a rispettare un tariffario preciso che consenta loro di conseguire un giusto profitto ma escluda qualsiasi intento speculativo. Le assicurazioni dal canto loro dovranno ovviamente rispettare l’indispensabile equilibrio fra premi e prestazioni ma il profitto dovrà essere calmierato entro un tetto predefinito perché la salute non è una merce. Se le compagnie non dovessero accettare un simile codice di condotta si potrebbe anche ipotizzare la nascita di una polizza sanitaria universale gestita da un soggetto pubblico.

Una sanità complementare così regolata e dosata permetterebbe di liberare risorse da dedicare alla Sanità pubblica, nascerebbe una forma di integrazione virtuosa fra pubblico e privato.

Vi saranno da superare ostacoli enormi: l’opposizione, scontata, delle compagnie più votate alla speculazione e al profitto di breve periodo (quick and dirty) e quella ipocrita di chi rifiuterà in nome di un astratto principio ideologico qualsiasi integrazione fra settore pubblico e settore privato; non sarebbe la prima volta che l’estrema sinistra porta acqua al mulino di chi dovrebbe in teoria avversare maggiormente.

La politica sarà in grado di avviare questo percorso? È urgente, non c’è tempo da perdere.

Andrea Griseri

Pubblicato su Rinascita Popolare dell’Associazione I Popolari del Piemonte (CLICCA QUI)

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