Il nuovo art. 5-decies, introdotto in sede di conversione del decreto fiscale n. 164/2021, si propone di risolvere il problema della spettanza dell’esclusione da IMU per le abitazioni principali di coniugi che si trovano a dover risiedere in Comuni diversi. La nuova norma, tuttavia, non risolve i problemi di costituzionalità dell’assetto derivante dalle pregresse opinabili pronunce della Cassazione sul tema, e continua a discriminare le coppie sposate. Quella in procinto di essere approvata appare dunque come un’ulteriore disposizione fiscale che, anziché agevolare la famiglia, produce l’effetto di penalizzarla.

1. L’imposta patrimoniale sugli immobili – prima l’ICI, oggi IMU – non è dovuta per le prime case di abitazione non di lusso. L’esclusione è richiesta direttamente dai principi costituzionali e, in particolare, dal principio di capacità contributiva (art. 53 Cost.), che impone di escludere da imposizione il c.d. minimo vitale (la giurisprudenza costituzionale è consolidata sul punto da Corte Cost., n. 97/1968 fino, da ultimo, a n. 152/2020), e dal principio che richiede alla Repubblica di favorire l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione (art. 47 Cost.).

Se non che facta lex inventa fraus: alcuni contribuenti senza scrupoli, che in famiglia avevano più immobili, hanno pensato bene di diversificare la collocazione formale delle residenze per far apparire che ciascun familiare avesse residenza in un immobile diverso e potesse così beneficiare su di esso dell’esclusione IMU per prima casa d’abitazione, pur vivendo in realtà altrove insieme agli altri.

Sarebbe bastato poco per demolire il trucchetto e sanzionare i furbetti. A norma del codice civile (art. 43 co. 2), la residenza deve essere fissata nel luogo ove si dimora abitualmente, per cui deve ritenersi illegittima, o comunque inopponibile ai fini fiscali, la fissazione della residenza in seconde case. Così, i soggetti che sfruttando lo scudo familiare avessero fissato la residenza in un immobile diverso da quello in cui dimoravano abitualmente avrebbero facilmente potuto essere oggetto di applicazione dell’IMU, e relative sanzioni, previa dimostrazione dell’ineffettività della dimora nell’immobile stesso, facilmente comprovabile per es. tramite la rendicontazione delle utenze.

2. La Cassazione, invece di ragionare linearmente in tal senso, già sotto la vigenza dell’ICI aveva deciso di affrontare la questione nel senso di negare tout court l’esclusione dall’imposta quando i familiari, in particolare i coniugi, avessero la residenza in immobili diversi (Cass.civ. n. 14389/2010). In questo modo veniva colpito non soltanto chi aveva fissato la residenza nella seconda casa nei luoghi di villeggiatura per profittare indebitamente dell’esclusione dell’imposta sulla prima casa, ma anche chi doveva effettivamente dimorare in luogo diverso ad esempio per ragioni di lavoro. In questo modo, si produceva l’effetto che due persone che si trovavano a dover lavorare in luoghi diversi, potendosi ricongiungere solo nel fine settimana, se erano sposati non potevano godere dell’esclusione ICI su alcuno dei due immobili in cui risiedevano, mentre se non erano sposati potevano goderne su entrambi.

Il carattere evidentemente discriminatorio della soluzione adottata dalla Cassazione non passò inosservato tanto che il Governo del tempo (Monti), in sede di sostituzione dell’ICI con l’IMU, riformulò la norma in materia di esclusione della prima casa dall’applicazione dell’imposta per renderla più precisa, specificando che “nel caso in cui i componenti del nucleo familiare abbiano stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili diversi situati nel territorio comunale, le agevolazioni per l’abitazione principale e per le relative pertinenze in relazione al nucleo familiare si applicano per un solo immobile” (art. 13 co. 2 d.l. n. 201/2011; identico in parte qua è l’art. 1 co. 741 della l. n. 160/2019, che ha sostituito l’art. 13 co. 2 del d.l. n. 201/2011).

Da tale previsione si ricavava con evidenza, in forza del basilare principio ermeneutico ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit, per un verso che l’assolutezza del ragionamento per cui avendo residenze diverse a nessuno dei due coniugi sarebbe spettata l’esenzione dovesse essere superato consentendo ad almeno uno di essi il diritto di fruirla, e per altro verso che l’incompatibilità tra diversa residenza dei coniugi e spettanza per entrambi del diritto all’esenzione IMU sussisteva soltanto nel caso in cui la residenza di essi fosse fissata in due diversi immobili del medesimo territorio comunale.

La scelta del legislatore di circoscrivere i casi di inapplicabilità di una delle due esenzioni qualora le due residenze siano fissate nello stesso Comune risultava del tutto ragionevole: in tal caso, infatti, non poteva ragionevolmente dirsi sussistente in generale un’esigenza di diversificare le dimore. La clausola legislativa in parola, quindi, si manifestava del tutto idonea a rendere coerenti il disposto dell’art. 144 cod. civ. con il rinnovato contesto sociale e lavorativo odierno.

3. Tanto fu riconosciuto anche dal Governo del tempo, notoriamente “sensibile” al tema della lotta all’evasione: nella Circolare n. 3/DF/2012, par. 6, esso ha infatti specificamente chiarito che “il legislatore non ha, però, stabilito la medesima limitazione nel caso in cui gli immobili destinati ad abitazione principale siano ubicati in Comuni diversi, poiché in tale ipotesi il rischio di elusione della norma è bilanciato da effettive necessità di dover trasferire la residenza anagrafica e la dimora abituale in altro Comune, ad esempio, per esigenze lavorative”.

Nonostante ciò, la Corte di Cassazione, con alcune decisioni dell’anno 2020 (Cass. civ. n. 4166/2020; Cass. civ. n. 20130/2020), ha rinnovato in materia di IMU la stessa interpretazione da essa fornita in materia di ICI. Se due persone sposate vivono in immobili diversi, nessuno di loro ha diritto all’esclusione dall’IMU prima casa: secondo questa tesi, soltanto se i coniugi vivono insieme hanno diritto all’esclusione dell’IMU dall’immobile in cui vivono. Ho già esaminato approfonditamente la manifesta erroneità di tale posizione, sia sul piano dell’interpretazione della legge, sia sul piano della compatibilità con i principi costituzionali. Rinvio quindi all’articolo scientifico dove affronto la questione ( CLICCA QUI ).

Seguendo il ragionamento della Cassazione, la variabile fiscale pregiudicherebbe, per es. e tra l’altro, i lavoratori che trovano lavoro lontano dalla famiglia, perché in tal caso essi, trovandosi con una dimora abituale diversa da quella della famiglia, impedirebbero a sé e agli altri componenti del nucleo familiare di godere di un diritto (quello all’esenzione dalle imposte locali) di cui invece avrebbero potuto godere se avessero avuto la fortuna di lavorare vicino a casa: si incorrerebbe, in questo caso, in un’interpretazione palesemente contrastante con gli art. 1, 3, 4 e 35 Cost.

4. Sotto altro profilo, a fronte di una situazione sociale, lavorativa e ordinamentale quale quella attuale, sostenere che laddove un lavoratore che sia sposato non possa godere del diritto all’esenzione IMU sulla propria abitazione principale perché si trova a risiedere lontano da casa equivale a penalizzare chi è civilmente sposato rispetto a chi non lo è. Se infatti due partner di fatto, non sposati, avessero residenza in due luoghi diversi nessuno penserebbe di applicare ad essi l’interpretazione data dalla Cassazione. Pertanto, pare evidente come tale interpretazione pregiudichi le coppie sposate che devono risiedere in luoghi diversi rispetto a coppie non sposate o separate: essa, quindi, si pone in manifesto contrasto con gli art. 3, 29 e 31 della Costituzione, nella misura in cui la Repubblica favorisce la formazione della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Anche di recente, del resto, la Corte costituzionale ha ribadito l’incompatibilità di una norma che “considera in maniera unilaterale la composizione plurisoggettiva della famiglia, poiché attribuisce rilievo alla convivenza solo quando essa comporti un accrescimento delle capacità economiche del nucleo familiare” (sent. n. 219/2018).

Oltre che contrastante con i principi costituzionali per le ragioni sopra esposte, l’interpretazione avanzata dalla Cassazione si pone in contrasto anche con i diritti affermati dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.  Secondo la giurisprudenza della Corte EDU, infatti e come noto, l’art. 1 del Protocollo 1 addizionale alla CEDU, che protegge il diritto al libero godimento dei propri beni, deve interpretarsi nel senso che, nel momento in cui lo Stato concede un’agevolazione, essa viene a costituire a tutti gli effetti un diritto per il cittadino e, quindi, rientra nell’alveo applicativo dell’art. 1 del Protocollo 1. Conseguentemente, l’ingiusta negazione della spettanza dell’agevolazione rappresenta una diretta violazione dell’articolo stesso (cfr. Corte EDU 26.3.1992, Causa Editions Periscope v. Francia; Corte EDU 22.3.2016, Causa Guberina v. Croazia; in senso analogo, Corte EDU 12.2.2020, Nechayeva c. Russia).

5. Nel caso di specie, aderendo alla tesi della Cassazione, la negazione dell’agevolazione risulterebbe ingiusta e irrazionale perché, traducendosi in uno svantaggio per le coppie sposate che debbano lavorare, e quindi dimorare, in luoghi diversi, essa viola il divieto di discriminazione di cui all’art. 14 della Convenzione, in forza del quale “il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione”.

Si verrebbe, quindi, a negare un diritto di cui all’art. 1, Protocollo 1 della CEDU (l’agevolazione IMU prima casa) sulla base della condizione affettiva e lavorativa delle persone, mentre l’art. 12 della CEDU riconosce espressamente che “l’uomo e la donna hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia”. Per di più, tale negazione avverrebbe in una situazione di contrasto con una serie di fondamentali principi della Costituzione italiana, e addirittura con il chiaro tenore letterale dell’art. 13 del d.l. n. 201/2011, come sopra ricostruito, dando così vita a un tipico caso di incertezza giuridica da ritenersi incompatibile con i principi CEDU (cfr. Corte EDU 25 luglio 2002, Sovtransavto Holding v. Ucraina).

Della manifesta insostenibilità dell’interpretazione fornita dalla Cassazione si sono avveduti anche alcuni giudici di merito i quali, in parte, hanno giustamente disatteso l’interpretazione della Cassazione (CTP Lecce, sent. n. 945/2020; CTP Bologna, sent. n. 914/I/2019; CTR Venezia, sent. n. 858/V/2017; CT I gr. Trento, sent. n. 27/II/2017, anche con riferimento a CTR L’Aquila, sent. n. 1427/IV/2015; CTP Brescia, sent. n. 605/II/2016; CTR Firenze, sent. n. 847/IV/2015 11.5.2015), in altra parte, assumendo come diritto vivente la tesi dei giudici di Piazza Cavour, hanno rilevato che l’assetto così determinato dà corso a evidenti profili di incostituzionalità e hanno così sollevato questione di costituzionalità di fronte alla Corte Costituzionale (CTP Napoli, ord. 2985/XXXII/2021; CTR Liguria, ord. 106/II/2020).

6. La questione è così giunta alle orecchie della politica ed è stata presentata una interrogazione parlamentare sull’argomento (n. 5-06286 del 22-23 giugno 2021). Desolante è apparsa la risposta a tal fine fornita dal rappresentante del Governo, la sottosegretaria Maria Cecilia Guerra: “Il Dipartimento delle Finanze non può che prendere atto dell’orientamento espresso dalla Corte di Cassazione, alla quale è affidato in ultima istanza, nel nostro ordinamento giuridico, il compito di fornire l’interpretazione della legge. Tanto premesso, a fronte delle difformità di applicazione dell’esenzione tra i diversi comuni, alla quale si riferisce l’interrogante, gli Uffici dell’Amministrazione finanziaria sono disponibili, ove sussistesse la volontà politica, a predisporre una norma che introduca chiarezza”.

Si dimentica, così, che anche la Corte di Cassazione è soggetta alla legge (art. 101 Cost.) e che, a fronte di una legge la quale chiaramente afferma che soltanto nel caso in cui i due immobili in cui vivono i due coniugi siano collocati nel medesimo comune l’esclusione da IMU della prima casa subisce deroghe, per le ragioni sopra esposte, l’atteggiamento corretto da parte del legislatore è quello di ribadire la corretta interpretazione della legge, se del caso mediante norma di interpretazione autentica. Così non è stato e il Governo, ravvisando l’esistenza di un profilo di incertezza, ha ritenuto di disciplinare espressamente il caso in cui i due coniugi risiedano in immobili siti in Comuni diversi.

7. La disciplina introdotta per tale fattispecie appare però essere esattamente identica a quella prevista per il caso in cui i due immobili siano collocati nel medesimo Comune: l’esclusione si riconosce per un solo immobile (cfr. il nuovo art. 5-decies del d.l. n. 164/2021, come approvato in prima lettura dal Senato). Probabilmente non rendendosene conto fino in fondo, il Governo ha così introdotto una disciplina che è doppiamente incostituzionale.

In primo luogo, è incostituzionale perché non risolve affatto il problema della discriminazione delle coppie sposate rispetto a quelle non sposate, di cui si è già sopra detto esaminando gli orientamenti della Corte di Cassazione. Se, per le più disparate ragioni, in particolare lavorative, due coniugi si trovano a dimorare distanti, per quale ragione dovrebbe negarsi l’applicazione dell’esclusione dall’IMU della casa in cui uno dei due dimora, mentre se si trovassero nella medesima situazione senza essere sposati o essendo civilmente separati potrebbero giustamente fruire dell’esclusione su entrambi gli immobili?

In secondo luogo, la nuova norma è incostituzionale perché tratta in modo identico due situazioni obiettivamente diverse. Per le ragioni sopra dette, è ragionevole ritenere in via generale che due coniugi vivano insieme se possono dimorare nello stesso contesto territoriale (che il legislatore ragionevolmente individua nel Comune), per cui soltanto un immobile potrà ragionevolmente essere considerato come prima casa per entrambi. Ciò non vale, tuttavia, se due coniugi si trovano a dover dimorare in contesti territoriali diversi. Quella in procinto di essere approvata appare dunque come un’ulteriore disposizione fiscale che, anziché agevolare la formazione della famiglia, produce l’effetto di penalizzarla.

8. La norma introdotta in sede di conversione del decreto fiscale appare come il classico caso in cui la toppa è peggio del buco. Nel caso di specie il buco non c’è, poiché come si è detto la regola dettata dall’art. 13 co. 2 del d.l. n. 201/2011 (e oggi dall’art. 1 co. 741 della l. n. 160/2019) è chiara nel disporre che soltanto nel caso di pluralità di immobili collocati nello stesso Comune il principio generale dell’esclusione dall’IMU della prima casa è derogato in caso di coppie sposate.

Ma se per ipotesi tale buco volesse considerarsi esistente, intervenire come ha fatto il Governo appare del tutto inadeguato a tamponarlo. Si doveva, infatti, specificare che nel caso di effettiva residenza e dimora dei coniugi in Comuni diversi, l’esclusione spetta su entrambi gli immobili in cui essi vivono, alle ordinarie condizioni di legge. E a tale specificazione doveva conferirsi carattere di interpretazione autentica, ossia valevole anche per il passato, anche ai sensi dell’art. 1 dello Statuto dei Diritti del Contribuente. L’auspicio è dunque che il Governo, rendendosi conto dell’inadeguatezza del proprio intervento, provveda a modificarlo al fine di renderlo finalmente conforme ai principi costituzionali.

Francesco Farri

 

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