Nel giorno stesso in cui a Davos si apre il Word Economic Forum, l’Oxfam, l’Organizzazione non governativa che combatte la povertà e le disuguaglianze nel mondo, pubblica il suo rapporto sull’Italia. E ci informa, purtroppo, che nel nostro Paese le cose non vanno così tanto bene. Conferma ciò che ogni giorno verifichiamo nella realtà. E cioè che i divari di ricchezza si allargano, che i redditi reali vengono falciati dall’inflazione, che l’occupazione, anche se in salita, è ben al di sotto delle medie europee, con una discesa dei salari rispetto ai prezzi sempre più fuori controllo. Tutti squilibri che danneggiano ancor di più l’Italia, come se già non bastasse il divario, ormai inarrestabile, tra il Nord e il Sud del Paese. Sono questi, a parere di molti, i fattori che hanno provocato la crisi del ceto medio italiano.
Vogliamo esaminare un po’ più a fondo le ragioni di questo fenomeno? Vogliamo individuare le responsabilità della politica, delle classi dirigenti e della stessa società civile, sempre più silenziosa e impotente? L’Istat ha certificato che la “sofferenza” del ceto medio italiano è una delle cause principali non solo della crisi italiana , ma anche della fragilità della sua coesione sociale. Nella nostra storia economica, il ceto medio ha sempre rappresentato un elemento stabilizzante per la società, in quanto portatore di consumi, di imprenditorialità, di cultura e soprattutto di capitale sociale. Quando succede che si impoverisce, allora son dolori, perchè il suo declino danneggia la stragrande maggioranza delle famiglie italiane. Intanto assistiamo ad una progressiva erosione del suo reddito. La stagnazione dei salari e l’aumento del costo della vita riducono la sua capacità di sostenere un’economia dinamica e di mantenere un dignitoso tenore di vita. A seguire poi, insorge un altro fenomeno. E cioè l’aumento delle disuguaglianze. La polarizzazione tra ricchi e poveri ha generato un senso di frustrazione e insicurezza che indebolisce la fiducia nelle istituzioni e nei meccanismi di redistribuzione. Si diffonde allora quel senso d’incertezza che provoca, nel tempo, i conflitti sociali. Un ceto medio in difficoltà tende a sentirsi minacciato. E questa sensazione può alimentare tensioni sociali e divisioni, come il risentimento verso altre fasce sociali o gruppi percepiti come “competitori” per risorse limitate. Tutto questo genera inevitabilmente un calo della fiducia nelle istituzioni. L’impressione è che lo Stato non riesca più a proteggerlo, nel mentre cresce un senso di sfiducia verso la politica e le istituzioni. Il ceto medio, così come ci insegna la sociologia, non è solo un gruppo economico. E’ anche il custode di valori come l’aspirazione al progresso e la speranza in un futuro migliore. La sua crisi mina quindi anche l’ottimismo collettivo, che è essenziale per una società coesa e intraprendente. Un altro effetto collaterale e indesiderato di questa crisi è l’affievolirsi, al Nord come al Sud, della coesione sociale. Causata soprattutto dalle crescenti disparità tra classi sociali, territori e generazioni. La precarietà lavorativa, l’aumento del costo della vita e la stagnazione salariale colpiscono in particolare le fasce più deboli della popolazione. Al Nord, le difficoltà sono legate a fenomeni come la polarizzazione del mercato del lavoro, che vede una crescente distanza tra i lavoratori ben retribuiti e quelli in posizioni precarie. Al Sud, la cronica mancanza di opportunità lavorative, associata alla disoccupazione giovanile, aggrava il senso di esclusione.
In tutto questo non va sottovalutato il capitale sociale. Un fattore sempre più in crisi, in quanto la fiducia reciproca e la capacità di collaborazione tra cittadini sono in declino. E infatti sono sempre più frequenti la frammentazione delle comunità locali, la perdita di fiducia nelle istituzioni, spesso percepite come corrotte o inefficienti, l’indebolimento dei legami familiari e comunitari, un tempo pilastro della coesione sociale in Italia. Mentre al Sud, la criminalità organizzata continua a rappresentare un ostacolo al rafforzamento del capitale sociale, al Nord l’individualismo crescente e la competizione esasperata stanno riducendo il senso di solidarietà. E noi, su tutto questo, non abbiamo nulla da eccepire? La Politica, indubbiamente, ha le sue responsabilità. Ma ce ne sono altre. Tanto per citarne alcune, l’insipienza e la pochezza di una classe dirigente – imprenditoriale o burocratica, scegliete voi – che non ha alcuna visione del futuro ma solo un attaccamento alle comodità e alle certezze del presente. La mancanza di un progetto comune per il futuro dell’Italia sta accentuando le divisioni regionali e sociali. Il divario Nord-Sud è percepito non solo in termini economici, ma anche culturali e identitari. Al Nord si diffonde spesso un senso di distanza rispetto al Sud, alimentato da stereotipi e retoriche divisive, mentre al Sud cresce il risentimento verso uno Stato percepito come assente o ingiusto. A tutto questo aggiungiamo anche la polarizzazione della politica. Questo divario tra visioni opposte e l’incapacità di trovare soluzioni condivise contribuiscono a dividere ulteriormente la società. E i media, inclusi i social network, non fanno altro che ampliare queste divisioni, alimentando il conflitto e la sfiducia. Anche culturalmente l’Italia appare sempre più frammentata: la mancanza di politiche culturali inclusive e un forte squilibrio nell’accesso all’istruzione e alla cultura hanno ampliato il divario tra chi può partecipare attivamente alla vita sociale e chi ne resta ai margini.
Stesso discorso vale per la riduzione del Welfare, nei servizi essenziali come sanità, istruzione e assistenza sociale. Anche qui si accentuano le disuguaglianze territoriali e sociali. Al Nord, dove i servizi funzionano meglio, il carico su famiglie e lavoratori cresce e genera malcontento. Al Sud, invece i servizi pubblici, che fanno acqua da tutte le parti, non sono sufficienti a garantire un livello accettabile di qualità della vita e generano sempre più spesso un senso di abbandono. E infine, un cenno alle politiche di inclusione. La scarsa capacità dell’Italia di integrare pienamente i migranti e di offrire opportunità alle fasce marginalizzate della popolazione contribuisce a un senso di frammentazione sociale. In un contesto di crisi economica e mancanza di risorse, le tensioni legate alla convivenza con gruppi diversi aumentano. Per farla breve, la crisi del ceto medio è il risultato di dinamiche complesse e di lungo periodo. Richiedono un cambio di paradigma. Per affrontarla, sono necessarie politiche che promuovano l’inclusione sociale, la riduzione delle disuguaglianze e un nuovo senso di appartenenza collettiva. Solo un progetto di rinnovamento basato sulla solidarietà, la giustizia sociale e il rilancio del welfare potrà contrastare il senso di frattura e disgregazione che minaccia il tessuto sociale del Paese. Sono questi gli obiettivi cui dovranno puntare le nuove generazioni. Quella dei nostri nonni e dei nostri genitori ci riuscì eccome. E’ la nostra generazione, purtroppo, che ha deluso le aspettative. La libertà, la pace e il benessere sono conquiste che non durano in eterno. Basta vedere quello che è successo in Russia, con Putin e quello che potrebbe succedere in America, con Trump. E’ del tutto evidente che un nuovo ciclo storico si è aperto per il nostro vecchio continente. All’inizio del terzo millennio, anche per l’Europa si prospetta un futuro diverso. Che noi immaginiamo con poche certezze, con tante paure ma anche – e ce lo auguriamo vivamente – con qualche speranza.
Michele Rutigliano