Diecimila persone in coda per Natale alla mensa dei poveri. Non a Mogadiscio o a Kabul: a Milano, la ricca, potente, operosa capitale economica del Paese.

Qui, nella regione altrettanto ricca, potente e operosa che produce un quarto di tutta la ricchezza nazionale e compete con la Baviera, il Rhone-Alpes e il Brabante.

Brillano i nuovi grattacieli; brulicano i quartieri vecchi e nuovi della movida; si alternano senza soluzione di continuità mostre, eventi spettacoli concerti; si espandono le linee della metropolitana; la Bocconi, il Politecnico, e lo IEO sono di eccellenza mondiale; la moda mantiene i suoi primati e alla prima della Scala si ripete lo sfoggio di potenti e ricconi che fanno cronaca più per il loro abbigliamento che per i loro ruoli.

Ma la folla che supera tutti, a Natale, è quella della mensa dei poveri. E’ la realtà dura e concreta che le statistiche descrivevano da tempo perché è qui la più alta concentrazione dei poveri con prevalenza di immigrati, in particolare islamici in quanto tra costoro, per un fatto religioso, dovrebbe lavorare solo il capofamiglia e se non lavora lui è l’intera famiglia che ne soffre.

Nel Quattrocento, sulle porte di accesso alla Milano degli Sforza e dei Visconti era scritto che “chi lavora è un uomo libero” e bastava conoscere un mestiere per avere questo privilegio. Oggi non è più così, perché conoscere un mestiere generico è troppo poco e la buona volontà non basta.

E’ finito il tempo del “bocia” che a sedici anni imparava a fare il muratore o il fornaio, a diciotto faceva il servizio militare e a venti era un uomo che aveva un lavoro. Oggi i ragazzini che smettono di andare a scuola cercano il posto precario al supermercato, soldi pochi ma subito, motorino a rate e discoteca al sabato.

Poi ci si mette anche l’analfabetismo di ritorno. Non solo saper parlare ma anche scrivere senza ricorrere a quello stile orrendo delle chat. Per non dire dell’uso degli strumenti digitali che ormai invadono tutti i campi ed è necessario conoscerli anche per fare il capomastro o il magazziniere.

Non solo le nuove leve. Il cinquantenne con anni di esperienza in un settore, se viene espulso perché l’impresa cambia pelle, oppure sparisce dal mercato o si trasferisce è alla stregua di coloro che cercano il primo impiego e trova molte porte chiuse.

Il paradosso che rende più stridente la folla dei poveri in coda alle mense è che i posti di lavoro vacanti non sono pochi ma la domanda è sempre più qualificata. Ed è qui che entrano in gioco la scuola e le istituzioni.

La scuola, è ben noto, dovrebbe educare e formare, non certo essere asservita all’industria o al commercio. Ma si dovrà pur porre prima o poi il problema di come elevare le possibilità di occupazione delle risorse umane. Senza immaginare rivoluzioni copernicane, basterebbe guardare altrove, dove si sono cercate per tempo soluzioni, come in Germania dove l’insegnamento è notoriamente rigoroso ma ai banchi di scuola si alternano l’officina, il laboratorio, il bosco.

E così gli uomini delle istituzioni, sotto tutte le bandiere. E’ giusto badare ad investimenti e produttività, ma dovranno pur chiedersi con quali strumenti concreti è possibile rigenerare una popolazione attiva. Non è solo un problema italiano, anche in Cina se lo pongono, come in Francia, in Spagna per non parlare dell’avanzato Giappone.

I programmi di governo insomma non possono più nascere solo negli uffici studi o nei think-tank, ma anche osservando le code alle mense dei poveri, sempre più numerose, e le domande di posti di lavoro vacanti, sempre più fitte, dove vengono richieste mansioni almeno una spanna sopra quelle generiche.

Guido Puccio

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