Si comincia a ragionare sugli effetti che resteranno dopo la grande crisi pandemica che da un anno sconvolge la vita sociale ed economica di mezzo mondo, anche se la “terza ondata” è ancora in corso. In particolare si comincia a pensare su  quanto potrà conseguire a una crisi imprevista e imprevedibile nei Paesi ad economia liberale e di mercato.

Un’occasione è stata già offerta dalla American Economic Association, una associazione accademica più che centenaria che oltre a pubblicare studi economici e una prestigiosa rivista, promuove un incontro annuale tra economisti. Per avere una idea della autorevolezza di questo ente basta citare che tra i suoi presidenti ha avuto personalità come Paul Samuelson, Kenneth Galbraith, Franco Modigliani e Amartya Senn. Roba forte, insomma.

Nel corso dell’incontro di quest’anno, che si è tenuto in gennaio a Boston, il premio Nobel Joseph Stiglitz ha sostenuto che tra gli effetti destinati a durare vi è la perdita di affidabilità dei modelli tradizionali di equilibrio economico generale, e ciò per effetto dello shock  troppo violento subito dal sistema. Dal blocco delle produzioni di beni e servizi; alle barriere nei movimenti di persone e merci; al “buco” nei fatturati delle imprese; alla caduta dei redditi e dei consumi dei ceti medi; all’eccesso di risparmio non investito da parte dei percettori dei redditi più alti. Come si vede, ce n’è abbastanza per immaginare quanto sarà duro e faticoso riprendere il cammino per tornare alla crescita.

Anche la politica monetaria fortemente espansiva, alla quale hanno fatto ricorso tutti i governi e le stesse banche centrali, è stata oggetto delle analisi. Ancora una volta è stato Ben Bernanke, già presidente della Federal Reserve, a sostenere che l’immissione nel sistema di migliaia di miliardi di dollari e di euro non è di per sé sufficiente per superare lo shock.  Sono piuttosto le politiche di bilancio dei vari governi che potranno concorrere a stimolare la ripresa, come già sosteneva con insistenza anche Draghi da presidente della BCE. Ed è proprio questo il punto che evidenzia come il problema non è più solo economico, ma assume aspetti decisamente politici.

L’orizzonte infatti è molto più complesso rispetto a quello che seguì alla grande crisi sistemica del 2008-9 originata dalla finanza, quando in gioco era ritenuta a rischio la sostenibilità dei mercati finanziari.  In gioco c’è ben altro, ovvero la stessa sopravvivenza di interi settori del sistema economico e produttivo. Tanto più che oggi si propongono prepotentemente problemi nuovi, come la transizione tecnologica che trasforma il mondo dell’impresa e del lavoro e la crisi demografica che comincia ad assumere in Europa aspetti preoccupanti. Per non dire delle voragini di debito pubblico in rapida espansione.

Per il nostro Paese, in particolare, gli effetti che resteranno dopo la pandemia già si vedono nelle sofferenze delle piccole imprese (che rappresentano il novanta per cento delle unità produttive) che subiscono le conseguenze più devastanti della crisi prolungata. Tutto ciò senza considerare che alcuni ritardi del nostro Paese rispetto agli altri partner europei erano già in atto prima della crisi sanitaria: la più scarsa produttività del lavoro; il minor reddito pro capite per abitante; la più lenta crescita dei servizi; le ben note disfunzioni della burocrazia.

Cominciare a ragionare sugli effetti della pandemia porta quindi diritti a ciò che è lecito attendersi dalla politica. Il caso poi che sia in forza un governo quasi di unità nazionale non consente più alibi alle forze politiche, non permette più di evocare paure a fini elettorali, sollecita il prevalere del buon senso e dell’interesse generale, e sfida in ultima analisi le capacità reali di coloro che sono chiamati ad assumere le decisioni importanti.  Ecco, ragionare sul dopo crisi non può muovere dalla solita certezza che prima o poi la ripresa arriverà, ma da un’altra: che è venuto il momento dell’esercizio delle responsabilità.

Guido Puccio

 

 

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