In politica i cognati vanno di moda fin dai tempi della Prima Repubblica. Si tratta di una parentela particolare, acquisita, un po’ asimmetrica e sghemba, favorisce una consuetudine di rapporti, predispone a collaborazioni e ad interessi comuni, ma non è necessariamente coinvolgente perché il cognato uno mica se lo sceglie, come fosse un amico; se lo ritrova per conto terzi. Soprattutto non c’è consanguineità. Che, invece, ci vuole se – ed in politica, se non necessario, può rivelarsi utile – c’è bisogno di contare su una fedeltà a prova di bomba.

Ovviamente non c’è nulla di male. Anzi. Chi quotidianamente è esposto nell’esercizio di una funzione pubblica delicata, nella quale mette in gioco, prima che non la propria immagine, gli interessi collettivi di cui porta la responsabilità, e’ del tutto legittimo che si circondi di persone sulla cui sincera dedizione è certo di poter contare.
Aver attorno qualcuno con cui si condivide un consolidato rapporto confidenziale ed affettivo è importante anche per garantire quel tanto di solidarietà e di umana comprensione che renda più sereni, meno metallici i tanti momenti di tensione che si devono attraversare.

Peraltro, anche nel fatidico “cerchio magico” di cui oggi deve necessariamente dotarsi chi aspiri a tramettere di sé una immagine di autorevolezza intangibile, si può sempre nascondere il tarlo del tradimento. Non a caso, un antico proverbio recita: “dagli amici mi guardi Iddio, che dai nemici mi guardo io”.

Non si può escludere che anche Giorgia Meloni abbia ragionato un po’ cosi quando ha deciso, da segretario del suo partito, di affidarne la segreteria politica a sua sorella. E’ un po’ come se avesse addirittura commissariata sé stessa.
Una chiusura a doppia mandata, una sorta di avvitamento che stringe il cerchio magico a tal punto da farne coincidere la circonferenza con il centro.

Insomma, cosa pensa davvero la Meloni del suo partito? Possibile che per fidarsi davvero di qualcuno debba rivolgersi ad una persona di famiglia? Ma, soprattutto, questa facendo concorre a corroborare una postura “dinastica”, se così si può dire, che tende ad affermarsi nella cultura politica del nostro Paese. Dopo la scomparsa di Silvio Berlusconi, anche su Forza Italia sembra incombere un tale destino o almeno così molti leggono la possibile evoluzione del partito “della famiglia”.

Siamo all’ ultima spiaggia di un processo di progressiva involuzione del nostro sistema politico verso forme che della democrazia solvano solo le apparenze?

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