Con un’essenziale dichiarazione pubblicata il 19 agosto 2019, l’associazione che raggruppa gli amministratori delegati delle più importanti società degli Stati Uniti ha voluto «ridefinire gli scopi» della società per azioni per
«promuovere un’economia che serva tutti gli americani».

Esplicitamente superando la tradizionale impostazione per la quale «le società per azioni esistono principalmente per servire gli azionisti (Shareholder)», lo statement della Business Roundtable (2019) introduce un «impegno fondamentale a favore di tutti i nostri stakeholder (tutti gli interessati)»: clienti, lavoratori, fornitori e comunità, menzionando gli azionisti solo alla fine e nella specifica prospettiva di «generare valore nel lungo periodo». Pur avendo generato un clamore mediatico senza paragoni, la dichiarazione della Business Roundtable non costituisce affatto un caso isolato.

Nel 2018 la British Academy ha avviato un progetto dedicato a The Future of Corporation1; nell’ottobre del 2019,
Leo Strine, già Chief Justice della Delaware Supreme Court, la più importante autorità giudiziaria statunitense in materia societaria, ha pubblicato un “manifesto” sul capitalismo sostenibile (Strine 2019); nel maggio 2019 gli articoli del codice civile francese in materia di nozione e statuto delle società sono stati modificati inserendo il riferimento, rispettivamente, agli «aspetti sociali e ambientali» della loro attività e alla possibilità per gli statuti di indicare la «ragion d’essere» della società (artt. 1833, co. 1, e 1835 Code civil) (Conac 2019). In tempi ancora più
recenti, la Commissione Europea (2020) ha promosso un’approfondita riflessione, prodromica a una proposta di direttiva, sui doveri degli amministratori nella prospettiva di una corporate governance sostenibile. Nella letteratura specialistica, la discussione sul modello preferibile di società per azioni impegna gli studiosi più autorevoli.

Che cosa spiega questa soluzione di continuità con il recente passato, caratterizzato dalla netta prevalenza di un’impostazione tradizionalmente sintetizzata con il noto aforisma di Milton Friedman (1970), per il quale «the social responsability of business is to increase its profit» (la responsabilità sociale dell’impresa è incrementare il proprio profitto)? Pur essendo stata preceduta da una crisi finanziaria di portata unica, l’odierna svolta verso una concezione della società per azioni che consideri tutti i suoi stakeholder (c.d. stakeholderism), anziché limitarsi soltanto ai soci (c.d. shareholderism), non sembra potersi giustificare con un’improvvisa «conversione» di amministratori delegati e responsabili delle business schools.

Il diffuso scetticismo che ha accolto la dichiarazione della Business Roundtable3 e i rilievi empirici sulla effettiva condotta delle società guidate dai firmatari dello statement ne sono un’immediata conferma (Raghunandan & Rajgopal, 2019). Né possono essere trascurate le implicazioni operative di un approccio orientato allo stakeholderism: enfatizzare la necessità che l’agire sociale persegua una pluralità di interessi, amplia l’àmbito di potere discrezionale degli amministratori e ne riduce la responsabilità nei confronti degli azionisti. Nelle icastiche espressioni di un classico del diritto societario, «a manager told to serve two masters (a little for the equity holders, a
little for the community) has been freed of both and answerable to neither («un manager incaricato di servire due padroni – un po’ per gli azionisti, un po’ per la comunità – è stato liberato da entrambi e non risponde a nessuno dei due)» (Easterbrook & Fischel, 1991), secondo una dinamica di particolare rilievo nell’odierna dialettica tra amministratori delegati delle società quotate, grandi investitori istituzionali (Denozza 2019, p. 591) e, in particolare,
fondi attivisti (Roe 2019).

La consapevolezza dei limiti e delle conseguenze che caratterizzano l’odierna enfasi sullo stakeholderism non tolgono, tuttavia, la crescente consapevolezza dell’impraticabilità di un modello esclusivamente incentrato sull’interesse degli azionisti a massimizzare il proprio investimento. Una concezione che assolutizza il valore per gli azionisti (shareholder value) appare oramai, infatti, troppo rozza e come tale incapace di spiegare adeguatamente la realtà. Le ragioni di tale insufficienza sono molteplici. Dal punto di vista teorico, il modello tradizionale presuppone un agente economico, che, invece, non esiste. L’homo oeconomicus è un egoista, sempre capace di calcolare l’efficienza delle proprie scelte, conformando conseguentemente la propria azione. L’uomo reale, di contro, è, in misura più o meno marcata, un animale sociale, che deve misurarsi con i propri limiti cognitivi e morali

Parimenti inesistente è, per altro verso, l’«azionista» che il modello dello shareholder value mette al centro della società per azioni. La realtà conosce, infatti, azionisti con una grande varietà di interessi e di valori: alcuni soci diversificano, mentre altri concentrano i propri investimenti; alcuni preferiscono una società stabile nel tempo e capace di consolidare il suo rapporto con clienti e dipendenti (c.d. long-termism), mentre altri mirano a elevati rendimenti nel breve periodo (c.d. short-termism); alcuni sono disposti a rinunciare a una parte dei loro profitti per favorire scelte imprenditoriali «prosociali», mentre altri curano soltanto il proprio interesse individuale (Stout 2012, pp. 9 e 107).

L’enfasi esclusiva sullo shareholder value appare, infine, inadeguata in un contesto storico caratterizzato da crescenti disuguaglianze che gli Stati nazionali riescono a contenere con sempre maggiore difficoltà. Al rilievo di un controverso economista – per il quale «l’ironia del sistema di mercato sta nel fatto che, mentre il suo successo dipende dalla capacità di imbrigliare il potere dell’interesse egoistico, la sua sostenibilità dipende dalla disponibilità
delle persone a porre in essere comportamenti che non sono egoistici» (Summers 2003) – corrisponde, in questo senso, l’acuta osservazione della Dottrina sociale della Chiesa: «Lasciato al solo principio di equivalenza di valore dei beni scambiati, il mercato non riesce a produrre quella coesione sociale di cui pure ha bisogno per poter funzionare» (Benedetto XVI 2009, n.35). Quest’ultima notazione aiuta anche a comprendere la vistosa virata verso la finanza sostenibile che ha caratterizzato le politiche dei principali investitori istituzionali a far data dalle ultime lettere annuali dell’amministratore delegato di BlackRock, il più importante asset manager del mondo (Fink 2018, 2019, 2020; Strampelli 2020).

A fronte delle disuguaglianze e per la debolezza delle istituzioni democratiche, il potere economico tenta di colmare il vuoto lasciato dal potere politico e, pur in assenza di qualunque legittimazione rappresentativa, si candida a svolgere un ruolo di garante della coesione sociale (Maugeri 2019, p. 593) all’evidenza essenziale per la soddisfazione dei
propri interessi (Denozza 2019, p. 591 e 598). Se, quindi, i limiti dello shareholderism sono numerosi, la costruzione di un modello di società per azioni orientato allo stakeholderism appare, nel contempo, irta di difficoltà.

Gli interessi degli stakeholder di una società per azioni sono diversi ed è pertanto del tutto normale che possano confliggere tra di loro in occasione delle singole scelte di gestione. L’impatto economico della pandemia ha posto il problema sotto gli occhi di tutti, rendendo impraticabile assicurare, allo stesso modo, il rendimento dell’investimento, l’occupazione dei lavoratori, la soddisfazione dei clienti e la sicurezza della comunità.

La modalità tradizionalmente identificata per contemperare gli interessi degli stakeholder sono le scelte degli amministratori. In termini giuridici, il problema sono, quindi, poteri, doveri e responsabilità di chi è chiamato a gestire l’impresa. In questa prospettiva, risulta confermato che la necessità di considerare gli interessi di tutti gli stakeholder necessariamente amplia la discrezionalità agli amministratori, aumentando il potere e diminuendo la responsabilità. La considerazione è rafforzata dall’impraticabilità di una verifica giudiziale del rispetto dei doveri gestori: ipotizzare un’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori per mancata considerazione dell’interesse di uno o più stakeholder equivale ad assegnare la composizione dei diversi interessi al potere discrezionale del giudice, con la conseguenza di un’invasione di campo indebita e pericolosa (Libertini 2019, p. 602; Denozza 2019, p. 606). Soluzioni più nette configurano il consiglio di amministrazione come il luogo
istituzionale nel quale gli interessi di tutti gli stakeholder sono portati a conoscenza del board per il tramite di amministratori indipendenti o specificamente nominati per la tutela di singoli interessi particolari, se del caso riuniti in appositi comitati. In tal modo verrebbero consentite decisioni più complete, lasciando, comunque, l’ultima parola agli amministratori espressi dagli azionisti (Denozza 2019, p. 607; Denozza e Stabilini 2020, p. 225 ss).

L’esperienza storica della cogestione e, in misura minore, del consiglio di amministrazione multistakeholder introdotto per le imprese sociali dalla Riforma del Terzo settore, dimostra, tuttavia, la possibile inefficienza del modello: nella misura in cui il contributo dell’amministratore «di parte» sia eccessivamente tarato sulla protezione «corporativa» di un singolo interesse, la conflittualità nella materie sensibili e, per converso, l’apatia su ogni altro argomento possono generare più costi che benefici.

Le difficoltà di attuare lo stakeholderism lascia intendere che una semplice contrapposizione con lo shareholderism rischia di risultare poco feconda. Più promettente appare, di contro, un approccio che provi a integrare la giusta remunerazione dell’azionista, che sopporta il rischio dell’impresa, con le ulteriori istanze alle quali lo stakeholderism dà voce. Sotto un primo profilo, sono ormai diffuse ricostruzioni che prospettano l’opportunità di scelte imprenditoriali «integrate». Esempi, di tale impostazione sono gli orientamenti che perseguono in modo «illuminato» l’obiettivo prioritario del valore per gli azionisti, ma considerano, nel contempo, l’orizzonte di
lungo periodo, nonché degli interessi di lavoratori, fornitori, clienti, comunità e ambiente (c.d. enlightened shareholderism) (Loughrey et al. 2008, p. 79 ss), ovvero suggeriscono un approccio diretto a «far crescere la torta» nell’interesse di tutti, anziché limitarsi a decidere come «dividerla» (c.d. pieconomics) (Edmans 2020). Non mancano, tuttavia, proposte più decise, che ribaltano la prospettiva della discussione.

Identificando nel profitto monetario la conseguenza e non, invece, la ragione motivante – dell’impresa, tali impostazioni affidano a una pluralità di asset managers il compito di allocare gli investimenti alle società che perseguono gli scopi preferiti dagli investitori (Mayer 2020), in conformità all’esplicita previsione dei loro statuti. Meno affrontato dalla discussione accademica, ma ugualmente meritevole di attenzione, è il possibile intervento del legislatore e, quindi, della comunità politica. Tradizionale è, al riguardo, una tutela degli stakeholder realizzata con l’introduzione di vincoli legali all’azione degli amministratori, mediante, per esempio, il diritto del lavoro o il diritto dell’ambiente (Sacchi 2019, p. 592; Gatti e Ondersma 2020, p. 70 ss).

L’inevitabile carattere distributivo e, pertanto, il «costo politico» delle scelte giuridiche, i costi di compliance (conformità delle attività aziendali alle disposizioni normative) che ne conseguono per le imprese e la possibile debolezza del potere politico nel confronto con il potere economico internazionale, induce, tuttavia, una particolare cautela nel generalizzare un simile approccio. In questa prospettiva, l’intervento eteronomo del potere politico nella disciplina dell’impresa con finalità ridistributive sembra, pertanto, doversi limitare alle necessità non differibili, secondo quanto esemplificato dai provvedimenti amministrativi adottati nelle fasi più acute delle recenti crisi per arginare gli eccessi di speculazione realizzati con le vendite allo scoperto.

In tempi di difficoltà per l’economia reale e di indebolimento del welfare state, preferibile appare, piuttosto, un approccio che premi, anziché imporre, e, secondo la logica del principio di sussidiarietà, promuova con lo strumento fiscale forme di impresa orientate all’interesse di tutti gli stakeholder. Il modello dell’impresa sociale, oggi rilanciato dalla Riforma del Terzo settore, è il paradigma teorico più conforme a un simile modo di ragionare.

Andrea Perrone

 

1 I primi contributi sono pubblicati in 6 Journal of the British
Academy (2018), in www.thebritishacademy.ac.uk 2 Nella letteratura anglosassone, per tutti, L. Bebchuck – R. Tallarita (2020), p. 91 ss.; C. Meyer, (2020); nella letteratura italiana, A. Perrone (a cura di) (2019); U. Tombari (2021), p. 1 ss., C.
Angelici (2020), p. 4 ss. 3 Si veda L. Zingales (2019); L. Enriques (2019); M. Roe
(2019). 4 Sul punto e per gli essenziali riferimenti bibliografici, mi permetto rinviare ad A. Perrone (2010).
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