Abbiamo davanti a noi lo “spettacolo” quotidiano della guerra e di una guerra sempre più vicina. Sappiamo perfettamente cosa essa è. Possiamo anche immaginare gli scenari da incubo che essa potrebbe a breve aprire. Ma sappiamo davvero anche cos’è davvero la PACE? Di fronte all’inquietante escalation del conflitto in Ucraina è utile forse fermarsi per chiedersi questo. E ritornare  alle radici profonde dell’Europa. Il concetto di pace ha paradossalmente molto a che fare con l’Europa, con il continente sconvolto nel XX secolo da due conflitti mondiali. Proviamo a interrogarci sulla PACE partendo allora da queste radici storiche.

Possiamo partire da Dante. Dante Alighieri è tra i grandi progenitori dell’idea di Europa. Lo prova senza alcun dubbio anche il fatto che, negli stessi anni, all’incirca il 1310,  in cui egli scrive il De Monarchia indicando la necessità di un impero unificato per assicurare la pace, più o meno la stessa proposta di un governo comune di ciò che già allora si diceva Europa è avanzata da Enjelbert D’Admont ( 1250-1331), uno sconosciuto abate benedettino della Stiria, che certo non aveva mai conosciuto Dante nel suo De ortu et fine Romani imperii.

Niente, meglio della Commedia, ci può aiutare a comprendere cosa Dante intenda  col  termine pace.

“ VEGNA VER NOI LA PACE DEL TUO REGNO, ché noi ad essa non potem da noi/ s’ella non vien, con tutto nostro ingegno”( Purgatorio, 7-9,  XI ). “ Venga da noi la pace del tuo Regno, perché noi da soli, con tutto il nostro sforzo, non potremmo raggiungerla, se non è essa a raggiungerci”. Sono le parole della profonda e rigorosa rivisitazione dantesca del Padre Nostro la preghiera recitata lungo la cornice del monte dalle anime dei “superbi”, cioè di coloro che hanno voluto fare cose grandi da soli contando sulle sole loro forze, perché mentalmente offuscati e psichicamente  schiacciati da un pesante schermo culturale, noi diremmo “ideologico” ( la “caligine del mondo”, Purgatorio, 30, XI ) che offre modelli di pretesa “liberazione” o “sovra-umanità” e, potremmo dire, di “egolatria” che in realtà asserviscono l’uomo.

Dante non scrive semplicemente “ Venga il tuo Regno”, ma precisa “la pace del tuo Regno”. Perché la pace è l’essenza di quel “Regno”. Basterebbe rileggere solo alcune delle numerosissime e straordinariamente concordanti occorrenze del termine “pace” nella Commedia per capire cosa è questa essenza. Cosa è dunque  PACE per Dante? Cominciamo col dire cosa è pace prima di Dante.

Pace era per gli antichi  greci una situazione identificabile con  l’ opposto di guerra, con calma, o anche ordine ed ordine pubblico  (eirene),  oppure  con una condizione di riposo, tranquillità, quiete, cessazione di  movimento, silenzio, solitudine (esuchia).

Pace era per i romani ( pax) una condizione politico-morale, premessa di libertà e sicurezza, un bene umano che si poteva classificare come “libertà tranquilla” (“tranquilla libertas”in Cicerone), l’opposto esatto  del peggiore dei mali, cioè della schiavitù. Una condizione politico morale che finiva per assumere la forma personificata di una virtù, di una forza umana, come nel Carmen Saeculare di Orazio in cui assumono questo ruolo, insieme alla Pace, anche la Lealtà ( Fides), l’ Onore ed il Pudore che ritornano entro l’ordine pubblico restaurato da Augusto, dopo un secolo di guerre civili.

Pace era, invece,  nella cultura ebraica, quella di un popolo vissuto in mezzo alle guerre e alle tragedie politiche, prima di tutto un bene umano che si identifica con l’accordo tra i figli di Dio ed è in realtà  dono futuro di Jahwe destinato all’ attesa escatologica, espressa da Isaia nei termini noti: “Muteranno le loro spade in zappe e le loro lance in falci; una nazione non alzerà la spada contro un’altra e non praticheranno più la guerra” ( Isaia, 2, 4). Tale è anche nel pensiero cristiano, in cui essa connota, in modo complementare,  anche  una equilibrata serenità dell’animo che supera la dispersione e la lacerazione del peccato.

Pace era, infine, nella cultura tomistica e scolastica medioevale, qualcosa più della concordia, che è unità dei desideri di desideranti diversi, ma piuttosto una unione che comporta anche l’unità dei desideri di ogni singolo desiderante, cioè una unità a lui interna. Un rapporto armonico con gli altri, e con Dio,  che implica il rapporto armonico con sé stessi. Cosa può turbare questo rapporto con sé stessi?  Nient’altro che  la rinuncia all’unità, all’ordine, all’armonia divina, in favore del disordine, della molteplicità e del caos, del fallimento (hata’ in ebraico, cioè peccato,  è fallimento).” Peccare nihil est aliud quam progredi ab uno spreto  ad multa” ( De Monarchia, I, XV, 3). “Peccare altro non è che passare dal disprezzo dell’unità al molteplice”. La pace civile e politica delle città (ed anche la pace “universale” dell’ Impero) si fonda per Dante, su questa PACE che è  ordine,  collettivo ed individuale ad un tempo, e che dovrebbe essere garantito da una autorità secolare e da una religiosa, in vista della finalità suprema dell’uomo, che è appunto la pace, intesa in questa duplice accezione.

Pace è sempre questo, nella Commedia, è, prima di tutto il bene che consiste in questa armonia interna alla persona, e che consente la concordia, l’unità di cuori, delle comunità, a partire da quella politica  E’ una armonia che-lo vediamo in tanti personaggi – si rimpiange, si sogna, si insegue, si combatte, ma che è sempre essenziale. Ed è anche, in una forma suprema, la meta del viaggio dantesco. Perciò in questo senso essa è sempre un ”dono di Dio”. E’ cioè qualcosa che possiamo conquistare, trovare, scoprire, costruire, ricostruire, mai invece qualcosa che possiamo creare o di cui abbiamo libera disponibilità. Un bene che ci è dato,  solo perché ne abbiamo cura. Ed è per questo che la pace si lega inscindibilmente con la giustizia. Non solo in Dante. Se  pace è infatti una concordia perfetta e profonda tra diversi, la giustizia, che non può che essere una e indivisibile, è il sigillo e la garanzia di questa unità. Non a caso la nostra Costituzione afferma  all’art.11, all’articolo che esprime il “ripudio” della guerra, che l’Italia consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni.

La pace senza la giustizia sarebbe infatti prevaricazione o oppressione o umiliazione e resa incondizionata. Si può anche fare un deserto e chiamarlo poi pace, come ci insegna Tacito. E proprio per questo non ha senso parlare di tutela della sicurezza delle Nazioni e delle sovranità statali, senza parlare del rispetto dei diritti dei popoli.

Ma la pace può però intendersi legittimamente anche in altri sensi. Anzi dopo i trattati di Westfalia nella Europa degli Stati nazione si è affermata piuttosto un’idea molto diversa da questa. Un’idea modellata più sulle “leggi della fisica”, che sulle scienze umane. E’ l’idea di una pace tra gli stati intesi come nuovi soggetti assoluti, intesa  come assenza di guerra, assenza che è il risultato a sua volta dell’ equilibrio delle forze contrapposte. Anche  la pace fondata sull’equilibrio nucleare nasce da questa concezione. Nei secoli passati questa era una pace  che funzionava, anche se in modo un po’ intermittente. Era una pace che si interrompeva se c’era magari una successione monarchica da regolare in uno stato strategicamente importante, o  se c’era uno Stato la cui esistenza era motivo di alterazione di quell’equilibrio stabilitosi tra gli Stati che avevano signoria sull’ Europa ( si poteva arrivare anche a cancellare uno Stato come si fece con la Polonia alla fine del XVIII secolo, e come si sarebbe fatto di nuovo nel XX secolo ).  Il bilanciamento funzionava meglio se c’era un  sistema dell’equilibrio, come quello elaborato poi dal genio di Metternich,  che “funzionò” nel lungo XIX secolo che ebbe poche e “piccole” guerre,  ma poi esplose nel XX secolo, non riuscendo a impedire i due conflitti mondiali. L’idea di Europa rinacque proprio, all’indomani della “grande guerra”,  in Italia, ad opera di Luigi Einaudi, per rimediare ai disastri di questa concezione. E si incarnò in una concreta costruzione istituzionale nel 1950, in Francia, grazie a Schuman e Monnet, dopo l’ennesimo conflitto. Era tornata la “pace europea”, molto simile a quella pensata da Dante.

E’ la pace europea delineata dalla dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950 e poi anche quella dell’ Atto finale di Helsinki del 1 agosto 1975. E’ una pace che esprime un nesso profondo con una vera “cultura della cura” ( Politica Insieme- Daniele Ciravegna, CLICCA QUI).  Alla base c’è la volontà di non “voltare lo sguardo” rispetto all’insegnamento delle tragedie storiche, e quindi non solo di non ignorare le ragioni di chi ha subito violenza, ma anche di riconoscere che la comunità internazionale, intesa come accordo dei popoli,  va ricostruita , oltre le volontà di potenza e sopraffazione dei poteri prevaricanti.

La pace ha, soprattutto oggi, un nemico terribile, diffuso  ed invisibile e, per questo, a prima vista, inafferrabile e invincibile: la paura ( quella che è sempre prodotta dalla brama illimitata di potere, dalla “lupa” che è  “la bestia sanza pace” Inferno, 58, I, che ha il potere di “paralizzare” la volontà ed uccidere), contro cui, da soli, non possiamo farcela. La paura oggi è un  elemento essenziale del conflitto in atto in Ucraina, dove alle cose terribili che vediamo, si sommano i pericoli nucleari e le minacce di eventi ancor più angoscianti (“ le sanzioni sono una dichiarazione di guerra” Putin), una paura che ci chiude in noi stessi, ci assedia da ogni parte e ci costringe ad un pessimismo disperato, che ci impedisce di vedere spiragli di salvezza, ci spinge persino a “manifestare” nelle piazze forse sgomento più che speranza. Dante, per sfuggire alla paralisi della paura, e per raggiungere la sua “pace”, sceglie di fare un percorso più lungo, senza scontrarsi direttamente con il “nemico”, che non lascia possibilità di sopravvivenza. Ma  ha bisogno di un  duplice supporto, quello di una cultura umana e umanizzante, di una cultura della “cura umana”, quella da cui ottiene inizialmente l’aiuto, e poi del supporto  della fede, che lo conduce alla conquista della “pace” suprema cui arriva, dopo il lungo percorso. Va anche detto che senza quel nemico Dante non avrebbe mai intrapreso il percorso doloroso e travagliato verso la conquista del senso pieno e vero della pace. Senza quel male non avrebbe potuto scoprire o conoscere a fondo quel bene, che è il primo assoluto dei beni umani, e, nel testo della Commedia il punto di arrivo del viaggio, “ l’etterna pace” ( Paradiso, 8, XXXIII) entro la quale e grazie alla quale  l’ Amore può far “fiorire” la vita umana.

Queste considerazioni chiariscono perché non basta oggi manifestare, ma occorre anche pregare, per riscoprire il senso di ciò per cui vale la pena lottare. La preghiera, soprattutto quella cristiana “consiste anzitutto nell’ascoltare Dio prima ancora di parlargli, chi prega si mette in ascolto prima di chiedere a Dio qualcosa” ( Enzo Bianchi) . Come ha affermato Enzo Bianchi, “Quando preghiamo non facciamo un’attività intellettuale o di pensiero ma ci predisponiamo a entrare in una situazione, in un contesto di relazione. L’intercessione, pregare per la pace, per i migranti morti nel Mediterraneo o i cristiani perseguitati e uccisi, non è inutile perché ci prepara a essere responsabili nei confronti di questi fratelli. Intercessione significa, letteralmente, fare un passo in mezzo, entrare nel vivo delle situazioni della storia. La preghiera non è evasiva “

Solo con la preghiera, paradossalmente, oggi  entriamo “nel vivo delle situazioni della storia”, evitiamo di rimanere in superficie. Solo se siamo capaci di ascoltare in profondità  e di dialogare con ciò che è presente e ci parla dal fondo della coscienza, se ascoltiamo ciò che non muta, possiamo recuperare la ispirazione, che ci consente di andare oltre le illusioni, le idee o i punti di vista inadeguati, tenendo ben saldo il cuore, e cioè resistendo col coraggio necessario .

Lo avevamo già  scritto nella stesura originaria della Carta di Nizza. E’ l’ “Europa” che abbiamo dimenticato. Il testo originario, poi purtroppo modificato, della ”Carta di Nizza” affermava

“Ispirandosi  alla sua eredità culturale, umanista e religiosa,  l’Unione si fonda sui principi  indivisibili e universali della dignità della persona ecc.”

La versione finale del testo riporta invece:

“Consapevole del suo patrimonio spirituale e morale, l’Unione si fonda sui valori indivisibili e universali di dignità umana, di libertà, di uguaglianza e di solidarietà.”

Il documento originario di Nizza riconosceva non soltanto le radici umanistiche e religiose (non è questo l’essenziale), ma stabiliva una connessione e una continuità  con i propri principi universali ( poi degradati a valori). Il patrimonio spirituale o religioso che sia si poneva come punto di riferimento imprescindibile dell’operato dell’ UE. Poteva questa eredità culturale non includere il concetto europeo di pace ?

Oggi di fronte al conflitto ucraino sembra impossibile anche fermare le armi per un attimo, non solo sembra impossibile il convertire la logica del conflitto assoluto e della eliminazione del nemico in una logica del negoziato, del compromesso ragionevole, dell’accordo. Tanto meno convertire le lance in falci.  E’ sicuramente un momento eccezionale. Vi sono dei momenti in cui la storia ha bisogno del contributo di tutti e di ciascuno, momenti in cui “la pace mondiale non potrebbe esser salvaguardata senza sforzi creativi all’altezza dei pericoli che la minacciano” (Dichiarazione Schuman 9 maggio 1950).

In questi casi non basta schierarsi senza se e senza ma dalla parte di chi è offeso e minacciato, anche se questo è necessario. Non basta aiutare materialmente e moralmente chi è attaccato e chi deve fuggire, anche se pure questo è necessario. Bisogna tentare un altro percorso prima che la parola passi definitivamente alle armi.

La via della pace “europea” ( non del semplice “rafforzamento” dell’ Europa) passa per la coscienza e le aspettative dei popoli, che, in casi rari, ma storicamente possibili, talvolta costituiscono forze che riescono a condizionare le scelte dei capi delle nazioni e dei signori  della guerra. Bisogna però precisare quale è l’obiettivo finale per cui vale la pena agire per poter coinvolgere le coscienze degli uomini comuni. L’ obiettivo per cui valga la pena rischiare.

E l’obiettivo finale  non può essere che la comprensione reciproca, il lavoro comune delle istituzioni statali e dei popoli per costruire una nuova Helsinki- come ha chiesto la Fondazione Balducci in un Appello per la pace pubblicato il 2 marzo 2022- per una Europa che, come fece l’ Atto finale di Helsinki del 1 agosto 1975,  sappia produrre il profilo di una comune politica estera di pace, di una politica estera che garantisca insieme sicurezza e cooperazione, tutela dei diritti e garanzie sui confini degli Stati, tutela della indipendenza e tutela della coesistenza pacifica, che valorizzi la “connessione tra pace, libertà e diritti umani”.

E’ per arrivare a questo che bisogna però, prima di tutto, ritrovare il senso della preghiera,  pregare. Con la fede in Dio ed in un bene  umano possibile. Una fede necessaria anche per chi non si professa o non si ritiene credente, ma “crede” comunque in una verità che non muta, nascosta in ciascuno di noi, crede  in quello che le Carte dei diritti e le Costituzioni chiamano “dignità”. Una fede che è necessaria  a chiunque si rifiuta ancora  di considerare l’essere umano non come un “Io” , come una persona, ma come un “sistema”, una “macchina” un “automa”  un “cyborg”, un numero senza nome nelle statistiche di guerra, una entità fungibile e intercambiabile, da preservare finché è utile farlo. Solo alla luce di questo la PACE, intesa in senso “europeo”, diventa il bene supremo e la lotta per la pace può diventare vittoriosa.

Umberto Baldocchi

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