In questi giorni si ha modo di leggere, in molti articoli di fondo dei principali quotidiani italiani, accorati allarmi circa un possibile intervento diretto dello Stato nell’economia italiana. Si temono nazionalizzazioni di imprese italiane ritenute strategiche. C’è contrarietà all’uso della” golden share” quando si può evitare la delocalizzazione di imprese innovative e/o globali.
Queste prese di posizione contro un ruolo attivo dello Stato, per quanto criticabili, trovano , tuttavia, fondamento sia in una burocrazia che ha stravolto il senso della trasparenza e della legittimità degli atti amministrativi, dando spazio a procedure incomprensibili e contraddittorie, sia in una politica di sovvenzioni e sussidi a pioggia, secondo logiche di sottogoverno e di lottizzazione partitica.
Va anche detto che l’imprenditore privato può essere un’ indubbia risorsa della società e ha diritto ad operare in un contesto privo di pastoie burocratiche e aperto alle innovazioni tecnologiche, nonché alla formazione di qualità del capitale umano.
Certo non si può considerare “imprenditore” uno Stato che ostacoli l’efficienza e la produttività, il miglioramento dell’ambiente di lavoro , e la sostenibilità ambientale. Non è uno Stato “amico” quello che favorisce le rendite parassitarie e gli interessi delle cooperazioni.
Inoltre, dopo il 1989(crollo del muro di Berlino) i paesi occidentali hanno privilegiato il libero mercato, annullando di fatto il ruolo diretto dello Stato. Il risultato più critico di questa liberalizzazione è che, dal 1989 ai nostri giorni, la ricchezza accumulata da una decina di capitalisti, i più ricchi del mondo, è pari alla ricchezza posseduta da circa il 50% della popolazione. Non solo, in questi ultimi anni, nella restante parte del Globo, è notevolmente cresciuta la disuguaglianza sociale. Tutto ciò, va sottolineato, è il risultato del libero gioco delle forze economiche e sociali.
Non appare, quindi, saggio perseguire ancora il mito del libero mercato, quale unico regolatore degli equilibri sociali.
A nostro avviso, è preferibile un’alleanza tra le varie forze economiche e sociali per il superamento delle debolezze del sistema produttivo italiano, dove lo Stato possa svolgere un ruolo fondamentale. Infatti, potrebbe approfittare della domanda interna pubblica per incentivare l’occupazione con la manutenzione ordinaria delle opere pubbliche, diffuse su tutto il territorio nazionale, (coinvolgendo un numero molto elevato di piccole e medie aziende) e con l’attività di ricerca svolta nelle Università, anch’esse numerose su tutto il territorio.
E’ lo Stato il soggetto più idoneo a sviluppare l’attività di ricerca indispensabile per l’adozione delle nuove tecnologie, che sono il motore della trasformazione del sistema produttivo, il cui costo elevato è apparso insostenibile da parte del sistema delle singole imprese.
Occorre più coraggio da parte di uno Stato “imprenditore” in grado di operare in un mercato più efficiente valorizzando insieme le energie pubbliche e private. Spetta allo Stato il compito di effettuare quegli investimenti in innovazione tecnologica e in formazione professionale, i veri motori della crescita, che il privato non è riuscito a fare nel recente passato.
Uno Stato “imprenditore” lo abbiamo già sperimentato negli anni del miracolo economico, in cui ha svolto un ruolo non marginale ( Schema Vanoni e i piani Saraceno, ricostruzione dell’industria di base e dell’industria navale, sviluppo delle telecomunicazioni, programmi di formazione dirigenziale dell’Iri, solo per citarne alcuni). Alla luce di questi risultati positivi meriterebbe un’altra possibilità.
Roberto Pertile