Il Patto per la Scuola al centro del Paese tra Sindacati e Governo è stato sottoscritto il 20 maggio scorso, e a giugno appena iniziato, l’intesa sembra essere già in crisi. Mercoledì 9 giugno è infatti prevista una manifestazione davanti a Montecitorio, indetta dalle organizzazioni firmatarie del Patto, per chiedere che siano cambiate molte delle previsioni del decreto legge 73 (cd Sostegni bis), attualmente alla Camera per la conversione in legge. I sindacati accusano il Governo di predicare bene e razzolare male, di non rispettare, in termini di concreta azione politica e amministrativa, il patto politico appena stipulato.

Alcune delle critiche del sindacato sembrano più comprensibili, altre meno. Salta agli occhi, per chi conosce l’assetto normativo del comparto scuola, che il decreto legge 73 entra a “piedi uniti”, come si dice nel gergo calcistico, su alcune materie che sono state attribuite alla competenza della contrattazione nazionale sin dai tempi del Decreto Legislativo 29 del 1993. Parliamo del provvedimento comunemente conosciuto con il nome di “privatizzazione del pubblico impiego”, espressione che, in effetti, è solo una semplificazione giornalistica, in quanto l’operazione normativa che fu allora compiuta fu, piuttosto, quella di includere i contratti e il codice civile tra le fonti regolative del rapporto di lavoro pubblico. Si trattò, quindi, di una “contrattualizzazione” del pubblico impiego, che da allora in poi, almeno per un certo numero di materie, fu sottratto all’imperio degli strumenti pubblicistici (regolamenti, ordinanze, decreti, ecc), di emanazione unilaterale, e governato tramite la contrattazione tra le parti, come avviene normalmente per il settore privato. Senonché, questa divisione dei compiti tra gli strumenti pubblicistici (dalle leggi a scendere fino a quelli meno cogenti) e quelli privatistici (contratti) viene spesso e volentieri disattesa dal datore di lavoro pubblico, cioè dalla politica, che, quando vuole tagliare la testa al toro, infila qua e là, nelle pieghe di una legge finanziaria, o in quelle di un decreto di emergenza, ciò che intende far approvare. Nel caso di specie, il decreto sostegni, per esempio, entra pesantemente nella materia della mobilità, facendo passare attraverso lo strumento legislativo, norme che impongono nuovi blocchi alla possibilità di trasferirsi, prevedendo un blocco triennale per chi ottiene il trasferimento in una provincia richiesta. Va anche detto, però, che un altro blocco, quello quinquennale per i docenti neo assunti dal 2020/21, viene ridotto a tre anni.

I sindacati rivendicano il proprio diritto a discuterne in sede di contrattazione, e non c’è dubbio che, alla luce della contrattualizzazione del pubblico impiego, abbiano più di qualche ragione.

Nulla vieta che la politica ci ripensi, purché non violi la costituzione, e “ripubblicizzi” quello che prima aveva “privatizzato” (ossia sottoponga nuovamente a regolazione d’autorità quello che aveva demandato alle parti), ma ci vogliono chiarezza e trasparenza. La certezza della norma non può diventare – in quella che pretende ancora di essere la patria del diritto, se non altro per aver visto la nascita di quello romano – un relitto in balìa delle onde.

La manifestazione del 9 giugno ha anche degli obiettivi concreti. Uno è la norma, a dire il vero un po’ sconcertante, secondo la quale chi non supera le prove di un concorso ordinario (sì, quello a crocette di cui abbiamo parlato nella newsletter della settimana scorsa ( Reclutamento del personale docente: Kant vale come divieto di sosta? CLICCA QUI ) non potrebbe partecipare all’eventuale concorso successivo. Anche qua… un premio a quiz, pardon, un concorso basato su test (ah, la political correctness: a quale artificio non si ricorrerebbe per ossequiarla!) basta a giocarsi l’accesso a una professione… con tutti i limiti che abbiamo già evidenziato circa il fatto che è difficile ridurre Kant, o la spiegazione del valore della Costituzione, a una serie di domande a risposta chiusa.

 

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