Mettendo da parte, per carità di patria, gli impietosi raffronti del piano europeo con il piano di ripresa americano (6mila miliardi, un altro pianeta), credo si possa articolare un giudizio, volutamente benevolo nonostante tutto, almeno sul Pnrr di Draghi, in tre punti.
Il Pnrr, come ha evidenziato il premier in parlamento nel complesso, vale circa 250 miliardi e comprende non solo le risorse del Next Generation EU fino al 2026, ma l’insieme degli interventi predisposti dal governo. Il suo principale punto di forza finanziario consiste nell’aver mobilitato risorse annuali quattro volte superiori a quelle del Recovery Fund. Con lo scudo della Bce il nostro governo ha iniziato a fare finalmente quello che i governi precedenti non facevano più: finanziare gran parte del fabbisogno con l’emissione di titoli pubblici e nel contempo fornire, come in Francia e in Germania, consistenti garanzie pubbliche alle banche in modo che queste possano aumentare i finanziamenti produttivi all’economia reale.
Dovrà essere oggetto di ampio dibattito politico, il più possibile partecipato ed esteso alle categorie sociali, ai corpi intermedi e ai territori, il duplice obiettivo della transizione verde e digitale. Se su entrambe le importanti e necessarie finalità vi è l’unanimità, il discorso cambia riguardo al modo con cui conseguirle. I progetti finanziati con risorse europee tendono a prescindere dal concreto contesto socioeconomico che esprime le “sue” priorità che non sempre sono coincidenti con quelle definite a tavolino dall’alto (e dai soli interessi dell’industria tedesca). A tali rigidità, rafforzate dalla costituzione di EPPO la Procura europea che incombe sulla gestione dei fondi dell’Ue, si potrà ovviare con le altre risorse mobilitate per la ripresa con progetti capaci realmente di intercettare le necessità secondo un ordine di buon senso. Un quartiere degradato avrà bisogno prima dei basilari interventi di riqualificazione che dei pannelli solari. Il comune di una zona svantaggiata avrà bisogno prima di collegamenti su rotaia e su strada moderni e veloci che della banda larga. Su tutto dovrà presiedere il criterio di giustizia climatica e digitale, secondo il quale gli oneri delle due transizioni andranno equamente distribuiti e non scaricati per inerzia su alcune precise categorie sociali più deboli.
Più in generale occorre muoversi con la consapevolezza che la priorità numero uno di questo piano di ripresa è quello di fronteggiare la profondissima crisi socioeconomica generata dalla somma degli effetti di una lunga stagione di austerità e della più recente crisi sanitaria. Il riavvio della domanda interna non potrà prescindere dal ridare la possibilità a quei circa venti milioni di italiani che sono stati pesantemente danneggiati dalle chiusure terapeutiche e dalla deflazione imposta dalle politiche monetarie, di svolgere la loro attività non con inutile assistenzialismo ma con coerenti politiche fiscali e salariali, in discontinuità rispetto al recente passato, ma che ben conosciamo perché erano quelle degli anni della prosperità del Paese.
Infine, rimane aperta la questione della riforma dell’Unione Europea, dalla quale dipenderà l’effetto complessivo del Pnrr: o essere vanificato oppure essere moltiplicato nei suoi successi. Si deve registrare l’avvio di un embrione di debito comune europeo con l’approvazione degli atti che permetteranno alla Commissione Europea di finanziare il recovery plan. Si dovrà trovare il coraggio di procedere sulla via che conduce a un vero debito comune europeo.
Il bivio davanti al quale si è arenato il progetto europeo rimane sempre lo stesso. Per salvarlo occorrono o riforme strutturali atte a svalutare internamente i Paesi euro periferici, ai quali apparteniamo, oppure il ricorso a trasferimenti fiscali dal nucleo germanico agli altri Paesi, come avviene in Italia fra le regioni.
In attesa che si realizzi la seconda di queste opzioni (la prima porterebbe all’implosione dell’Ue), le recenti raccomandazioni all’Italia da parte della Commissione europea non sembrano costituire un bel messaggio quando tornano a richiedere “riforme fiscali strutturali che contribuiranno al finanziamento degli interventi pubblici ed alla sostenibilità di lungo periodo del bilancio”, ovvero misure atte a far ricadere l’Italia in una crisi ancor più profonda. Non è mai troppo tardi per trarre qualche lezione dalla Grecia, dalla svolta “austeritaria” del 2011. Lezioni che già all’epoca l’attuale presidente del consiglio dimostrò di aver perfettamente appreso e che ha utilizzato per irrobustire il Pnrr, e che, c’è da esserne certi, utilizzerà, da protagonista di primissimo piano, per concorrere a cambiare il volto dell’Europa.
Gianni Bottalico