L’ISTAT (comunicato del 1 giugno) informa che la disoccupazione ad aprile era al 10,7%. In numeri assoluti si trattava di 2.070.000 persone.
Dunque per dimezzare la disoccupazione ci vorrebbero poco più di un milione di posti di lavoro. Un numero ricorrente nel linguaggio politico italiano. Come dimenticare il milione di occupati promesso da Berlusconi e quello rivendicato da Renzi come frutto del JobsAct? (È del politico il fin la meraviglia? O fare le cose possibili?). Frattanto poco meno di un milione sono i posti di lavoro persi da febbraio 2020 a quello 2021 (numero che comprende il diverso metodo di calcolo subentrato nel frattempo e che lo ‘gonfia’). Dato il blocco dei licenziamenti, i posti di lavoro perduti sono in parte consistente contratti a termine di giovani e donne non rinnovati alla scadenza. Anche i posti di lavoro, come tante altre cose, si contano e si pesano, perché un contratto a tempo determinato e a retribuzione iniziale non pesa lo stesso di un contratto a tempo indeterminato in imprese più competitive. Senza approfondire qui, annotiamo solo che serve oltre un milione di posti di lavoro di qualità, cioè a tempo pieno, a tempo indeterminato, dignitosamente retribuiti, adeguati a vivere, con forte recupero di giovani e donne. (In realtà ne servono ben di più, perché ci sono milioni di persone inattive, che andrebbero rimobilitate verso il lavoro e un ruolo sociale attivo).
Contiamo sul rimbalzo (delle attività che riaprono, delle catene di valore che si riattivano appieno), sulle innovazioni sostitutive (vecchie attività marginali, alle quali subentrano attività nuove più dinamiche), sul PNRR e sulle clausole per le donne e i giovani, sullo spirito di ricostruzione che speriamo si riaffermi tra gli italiani. Di questi posti di lavoro alcune decine di migliaia saranno nella Pubblica Amministrazione (a termine quelli strettamente legati alla attuazione del PNRR). Lasciamo a un programma di medio lungo periodo la fissazione del punto di equilibrio tra l’incremento del pubblico impiego e l’incitamento a ridurre la spesa corrente. Altri occupati potranno venire da diversi enti del settore pubblico allargato. Ma il grosso dovrà venire dal settore privato, che comprende le imprese, e anche il variegato settore dell’economia sociale, e le attività professionali.
Guardiamo oggi alle imprese. Chi potrà assumere (sperando in un’accelerazione della produttività tale da espandere occupazione)? Ci sono le grandi imprese che investiranno di più, ci sono le Pmi che cresceranno, ci sono in genere quelle che lavoreranno alle opere del PNRR (e dare più fiato al subappalto serve a renderne partecipi un maggior numero), ci saranno le imprese che nasceranno. Dunque imprese che crescono e nuove imprese. Ma questa era la premessa.
Che occorra una politica delle imprese qui è già stato affermato. È un’esigenza che a prima vista non si concilia facilmente con i grandi assi del PNRR, incentrati su quella che una volta si chiamava politica dei fattori. Certo non auspico una lista di esigenze particolari (in gran parte legittime, ma spesso di respiro corto, e non armonizzate nella coerenza di una prospettiva strategica).
Sarebbe però fuorviante pensare che gli attori dello sviluppo, le imprese, siano tutti pronti ai blocchi di partenza.
Al contrario il sistema imprenditoriale – o almeno la parte più numerosa di esso – si presenta all’appuntamento della ripresa in decelerazione, e non solo per la nota perdita di fatturato. Infocamere informa (comunicato del 23 aprile 2021), che confrontando il periodo marzo 2020-marzo 2021 con l’analogo periodo precedente risultano costituite 63.000 imprese in meno. Questo è l’effetto Covid19.
Ma un rallentamento nella natalità delle imprese italiane dura da un decennio: le nuove iscrizioni erano state 123.000 nel 2010 e 114.000 nel 2019. Sempre dalla stessa fonte (comunicato del 21 maggio scorso) apprendiamo inoltre che le imprese giovanili che erano 697.000 nel 2010 si sono ridotte dieci anni dopo a 541.000 (cioè quasi un quarto di imprese giovanili in meno). Inoltre i giovani dai 18 ai 34 anni impegnati come imprenditori sono diminuiti del -8%. La propensione dei giovani all’impresa non è aumentata, in un tempo in cui, invece, ci si sarebbe potuto attendere che ciò avvenisse. O, se si preferisce, le capacità delle politiche dell’impresa di dare occasioni di realizzazione ai giovani sono regredite.
Calano tutti i tipi di impresa, le società di capitale, le società di persone, e le imprese individuali, che sono oltre la metà delle imprese italiane. Un sistema fatto di molte imprese, ma la stragrande maggioranza cosi piccole che periodicamente si parla di nanismo. Crescono solo le SRL semplificate, un tipo societario non ancora previsto nel 2010. Ma si tratta di una situazione paradossale e distorsiva. Da un decennio almeno si sa che è indispensabile aumentare la capitalizzazione delle imprese, e che specialmente in Italia occorre ridurre il carattere bancocentrico del sistema imprenditoriale. L’esigenza di capitalizzazione si è grandemente acuita con la crisi dovuta alla Pandemia, perché l’indebitamento delle imprese è aumentato.
In questo quadro è stata consentita e facilitata la nascita di società senza capitali, che costano meno delle altre società all’atto della costituzione, ma non nella gestione. Valuteremo meglio tra qualche anno. In questa decrescita quantitativa del sistema imprenditoriale due situazioni particolari vanno sottolineate. Sono la decrescita delle imprese artigiane e la flessione che ha cause specifiche nella nascita di società cooperative. Sono le due categorie di imprese esplicitamente richiamate nella Costituzione, che dedica ad esse l’art.45 (…la legge … promuove e favorisce l’incremento … della cooperazione… e provvede alla tutela e allo sviluppo dell’artigianato”). Dunque anche questa così esplicita previsione costituzionale non ha avuto un’attuazione brillante ed efficace. Anzi.
Il caso delle cooperative è istruttivo. In un decennio sono passate da un picco di circa 8000 costituzioni all’anno, con una ripida discesa, a un minimo di 3000.
Cosa è accaduto? Tre cause: l’individualismo gioca per le imprese individuali, per le società unipersonali, per gruppi di due o tre persone. Non attrae la sfida di una corresponsabilità ampia, della integrazione di talenti complementari, della solidarietà nell’agire economico. La seconda è che la cooperativa non è più la società adatta a chi fonda un’impresa, ma non ha capitali: è spiazzata dalla scorciatoia della SRL semplificata (ma non siano più nell’alveo della Costituzione). La terza è che le maggiori associazioni cooperative hanno preso su di se l’onere della battaglia contro le false cooperative (non esistono battaglie contro le altre false imprese). Hanno presentato una proposta di legge di iniziativa popolare, hanno ottenuto il divieto di amministratore unico nelle cooperative. Le cooperative che mancano all’appello sono quelle che forse sarebbero state meno genuine e virtuose. Ma non sono state fatte politiche pubbliche adeguate per promuovere quelle autentiche e virtuose.
Dunque serve una politica per le imprese. Per tutte capitalizzazione. Per quelle che devono crescere rimuovere gli incentivi ad effetto bonsai. Per quelle che devono nascere formazione imprenditoriale offerta su larga scala. Per l’attuazione dell’art. 45 Cost. rifondare una politica cooperativa e una politica dell’artigianato moderne e feconde. Poi accompagnare la germinazione a campo largo dell’economia sociale. Agire con immediatezza nell’inserimento di elementi professionalizzanti e imprenditoriali (l’impresa antiNeet) nella istruzione e nella formazione. Questa politica per le imprese è fra le urgenze più stringenti.
Vincenzo Mannino