L’ orribile tragedia di Margno è l’ennesima punta di un iceberg nascosto rappresentato da una sofferenza intollerabile che opprime la vita di troppe famiglie. Un caso analogo, pochi anni fa, ancora in Lombardia, se non ricordo male a Motta Visconti, dove un padre uccise due figli e la moglie e cercò di costruirsi un alibi raggiungendo la casa di un amico per guardare insieme la partita della nazionale.
La prima dell’ultimo mondiale. E pare la seguisse addirittura con entusiasmo. Cosa può passare nella mente di un genitore che sopprime i figli? Quale determinazione feroce stringe, minuto dopo minuto, le mani di un padre attorno al collo di un figlio; ragazzi di 12 anni, aggrediti nel cuore della notte? Forse al primo istante pensano che papà stia scherzando, poi si dibattono e via via, ma ci vuole tempo, pochi minuti eppure un tempo eterno che non ha mai fine, si abbandonano e si spengono. Cosa prova un padre quando trattiene con violenza il figlio e poi lo sente rilasciarsi, sotto la pressione delle sue mani, nella immobilità flaccida della morte?
Ed a quali accorgimenti ricorre per evitare che l’altro bambino si risvegli così da poterlo aggredire senza destare sospetto? Ed i bambini quando capiscono davvero cosa sta succedendo? Cosa succede in quella mente ed in quel cuore quando il terrore si impone eppure non si può odiare chi te lo infligge, anzi forse continui a fidarti?
Si sono mai incontrati, per un secondo fugace, quegli sguardi? Oppure il padre sapeva almeno che quello sguardo non lo avrebbe retto e la cosa era talmente studiata da escludere che potesse succedere?
E, poche ore prima, che cosa si sono detti in quell’ultima cena, quando, forse, tutto era già deciso? E l’ultimo saluto di buonanotte, con le coperte rimboccate perché di notte a Margno dal Cimone scende, anche in questa stagione, un freddo pungente. Il parroco di Margno ha detto di aver sognato i gemelli che perdonavano il papà. Ha senso cercare una spiegazione psicologica nei meandri di una mente pur “capace di intendere e di volere” oppure casi del genere ci costringono ad affacciarci su quell’abisso insondabile che ci costituisce, che è, ad un tempo, l’identità ed il mistero, il fondamento ultimo di ciascuno di noi; su quelle regioni ultime dell’esistere che non hanno risposte, anzi neppure consentono di domandare?
Sono “mostri” questi genitori? No, non sono mostri. Pensare che lo siano è solo la risibile strategia con cui vogliamo sottrarci alla vertigine che rischia di inghiottirci, se appena osiamo scrutare la profondità di quell’abisso, costretti ad ammettere che è lo stesso che ci abita e che noi abitiamo. I femminicidi, gli abusi ed i maltrattamenti dei minori, i reati sessuali consumati nei loro confronti: possiamo pensare ogni volta che si tratti di un caso particolare, di una situazione unica o comunque circoscritta, piuttosto che di un fenomeno di dimensioni tali da testimoniare un nuovo tipo di emergenza, forse la più insidiosa: l’incapacità di convivere con i nostri sentimenti?
Perché ci siamo talmente allontanati da noi stessi, da essere irriconoscibili perfino al nostro sguardo? Chi siamo davvero, se possiamo uccidere i nostri figli? Non c’è nessuna filosofia al mondo, nessuna scienza che possa porre questa domanda – chi siamo davvero? – in modo altrettanto radicale, definitivo. E’ così radicale la nostra libertà, siamo talmente affidati – o abbandonati? – a noi stessi da poterci spingere fino a quel limite ed oltre?
Perché non siamo più in grado di sentire la confidenza ed il calore di una presenza che, al contrario, ci dice come, oltre ogni balza di quell’abisso, vi sia un dono, cosicché questa profondità inaudita che siamo a noi stessi – eppure, nella quale ci smarriamo sì, ma incantati perchè sa di infinito – ci può apparire straordinariamente affascinante, carica, ad un tempo, di senso e di mistero? Anzi, perfino rassicurante.
E’ come se la coscienza evaporasse, la consapevolezza di sé si liquefasse e non restasse di noi altro che un luogo inerte attraversato da un flusso di pulsioni primitive, brutali, qualcosa che precede perfino l’istinto ed, infatti, lo contraddice, qualcosa che neppure ha la dignità di un’emozione. Si tratta/ di eventi che vanno rispettati e lasciati alla loro dimensione familiare, oppure presentano risvolti che suggeriscono una riflessione che investa anche l’ambito sociale, la cultura, il vissuto collettivo del nostro tempo?
E’ facile, ad esempio, dire “famiglia”. Ma poi nel vivo delle dinamiche che percorrono le nostre famiglie, cosa succede davvero? Si può ragionare di prevenzione, di servizi, di favorire il sorgere di comunità accoglienti che rompano la solitudine in cui molte famiglie si incartano fino a soffocare. Ma può bastare? Oppure bisogna andare oltre, capire la “cifra” del nostro tempo, quello che sta succedendo al senso comune della nostra umanità, in questo tempo che è drammatico eppure meraviglioso, come se fossimo sfidati fino al limite estremo di noi stessi?
Domenico Galbiati
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