L’ abolizione dell’ “omicidio del consenziente” che il referendum promosso dall’ “Associazione Luca Coscioni” intende perseguire attraverso l’abrogazione dell’art. 590 del Codice Penale va addirittura ben oltre la legalizzazione dell’eutanasia. Colpisce un principio fondamentale di ogni civiltà’ giuridica e di ogni concezione umanistica della vita e del suo valore.

Assumere che l’omicidio del consenziente venga normato e “normalizzato”, cioè diventi un diritto nella piena ed individuale disponibilità di ciascuno significa cedere a una cultura che ha in odio la vita e giunge a tanto nella misura in cui la concepisce non come dono, bensì quale possesso autoreferenziale ed esclusivo. In effetti, la vita assunta in quest’ottica, sostanzialmente alienata e deprivata del suo impianto e del suo valore relazionale, riduce la persona ad un simulacro, a un’immagine statica, fredda, falsa ed inarticolata dell’ effettiva, reale, ricca umanità che tutti ci accomuna. Se si cade in un tale avvitamento, diventa comprensibile attraverso quale percorso contorto e perverso si giunga ad assimilare e confondere libertà ed autodeterminazione.

Autodeterminarsi – parola d’ordine che presiede al furore ideologico che anima personaggi ed ambienti che promuovono il referendum – significa decidere da sé e per sé, chiusi n un orizzonte che comincia e finisce nella singolarità solitaria del proprio “io”. Purtroppo la postura individualistica di società, com’è pure la nostra, non sa contrastare, anzi favorisce vissuti similari e, piuttosto occorrerebbe, anche sul piano legislativo, ma soprattutto nella cultura diffusa e nella ricca articolazione della società civile, promuovere modalità di convivenza e di solidarietà fraterna che sappiano prevenire e contrastare queste sofferenze, anziché consegnarle alla sconfitta della morte.

La libertà, al contrario, si sviluppa e si afferma su tutt’altro versante e si sostanzia di quella dimensione di dialogo, di comunicazione vitale con il “tu” che ti sta di fronte, che presuppone che si sappia essere liberi, anzitutto, da sé stessi.
Una società vive di valori condivisi, cosicché nessuno può assumere determinati comportamenti senza interrogarsi in che termini questi ricadano sull’intera collettività quale concorso ad affermare o piuttosto negare determinati valori fondativi della comune convivenza.

Ogni gesto che ciascuno di noi pone non si esaurisce in sé bensì concorre a strutturare il patrimonio comune di principi, criteri e valori secondo cui dare compiutezza e senso alla vita. In questa ottica legalizzare l’omicidio del consenziente significa seminare nella mentalità e nel costume corrente, anche a prescindere da ogni considerazione di ordine religioso, un fattore di deprezzamento della vita che, prima o poi, finirà per germinare, pure laddove non ce lo aspettiamo, e magari dopo aver minato, come un tarlo corrosivo, anche le ragioni che reggono la promozione delle libertà civili e la difesa dell’ordinamento democratico.

Come cattolici e come cittadini, secondo un’istanza comune a chiunque difenda il valore originario e fondativo della vita, intendiamo combattere la nostra battaglia contro l’eutanasia. Senza prestarci al gioco di chi vorrebbe immaginare una partita tra chi è credente e chi no, immaginando, in tal modo, di imprigionare preventivamente le nostre ragioni nel rispetto di una dimensione esclusivamente religiosa e, dunque, da coltivare nell’interiorità della coscienza di ciascuno, negandole preventivamente il diritto ad un pieno rilievo pubblico.

Si tratta, piuttosto, di una battaglia alla quale ci permettiamo di invitare, indipendentemente dal loro credo religioso o meno, tutti gli uomini di buona volontà che accolgono la vita secondo un sentimento di meraviglia e di gratitudine.

Domenico Galbiati

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