La questione se Mario Draghi debba declinare il compito di salvezza nazionale che il Presidente Mattarella gli ha affidato – senza vincolarlo ad una forma necessariamente politica della maggioranza destinata a sostenerlo  – nei modi di un governo “tecnico” o piuttosto “politico” ha un suo fondamento, ma va intesa per il verso giusto.

Prendendo le mosse dalla consapevolezza che l’attuale sistema è defunto, ha mostrato il suo limite estremo, intrinseco al presupposto dei “fondamentali” errati da cui è nato trent’anni fa ed è giunto all’ ineluttabile exitus.

Al punto che la stessa crisi del governo Conte, promossa da Italia Viva, va considerata, in definitiva, come la “causa seconda” del collasso del sistema, cioè il motivo occasionale e contingente che porta alla luce un processo la cui “causa prima”, si potrebbe dire il fondamento “ontologico”, sta altrove.

Senonché, poiché, la politica neppure da morta  può sopportare vuoti, inevitabilmente il governo Draghi, se pure non lo volesse, deve assumere – fosse pure, in teoria, composto solo da ministri tecnici – un compito di “supplenza” politica.

Del resto, classicamente, per “governo tecnico” si dovrebbe intendere un esecutivo ricco di competenze specifiche per ben definiti ambiti tematici, e di tale alto profilo da implementare un indirizzo politico che  lo precede, ha comunque un suo impianto ed una, sia pure elementare, evidenza.

Al contrario, nel nostro caso, il fatto che il governo, per tecnico che potrebbe essere, debba varare addirittura un Piano di ricostruzione del Paese, destinato a prolungare i suoi effetti ben oltre i termini temporali dell’attuale legislatura, di per sé gli conferisce un carattere particolarmente ed espressamente “politico”, nel senso proprio del termine, cioè destinato davvero a plasmare la “polis” che consegneremo alle prossime generazioni.

Insomma, non si tratta di far quadrare quattro conti, bensì di ridare al Paese una prospettiva di lungo periodo, in ogni caso tale da precostituire una traccia di sviluppo destinata ad impegnare anche i governi venturi, siano dell’una o dell’altra appartenenza politica. Più “politica” di così, si muore!

In ogni caso, è talmente vero quanto la politica, sotto la coltre di un chiacchierare disordinato, spesso volutamente sopra le righe e confuso, sia geometrica  che, non appena viene rimessa sul suo binario, come è successo con l’incarico a Draghi, determina nelle forze politiche processi di riposizionamento  non occasionali, bensì tali da alludere ad una presa di coscienza, da parte di ciascuna di esse, della propria più autentica identità.

Forse è esagerato sperarlo, ma sembra, con tutto il possibile beneficio di inventario, che possa succedere così nel Movimento 5 stelle, che o decide di morire nelle sabbie mobili della propria insostenibile e perdurante indeterminatezza, oppure decide di abbandonare l’età dei balocchi  e dei brufoli adolescenziali. Così è per lo stesso Conte, se abbandona l’idea sghemba di un suo partito.

Così potrebbe essere, in certo qual modo, almeno nel senso di porre la questione, pur senza darle immediata soluzione, addirittura per la Lega che dovrà, primo o poi, pur decidere quale delle due anime che la abitano sia destinata a prevalere. Ma a questo proposito il discorso si farebbe lungo ed andrà posto in altra occasione. Così è finalmente per Forza Italia e per la foglia  di fico della cosiddetta tetragona unità del centro-destra.

Ma altrettanto vale per il PD e per i partiti-satellite usciti dal suo seno. In particolare, per Italia Viva che deve decidere se vuol continuare ad essere lo zerbino di Renzi o piuttosto una forza responsabile che concorra ad un processo di trasformazione, cominciando dal superamento  del bipolarismo che si è rivelato  un cappio al collo  del Paese.

Del resto, anche se, a questo punto, si può considerare acqua passata sotto i ponti, la crisi del governo  Conte 2 presenta lati ancora oscuri ed inconfessati.

E’ legittimo chiedersi se l’ approdo a Draghi fosse, nella mente di chi l’ha provocata, il presupposto della crisi o se, al contrario, sia, invece, l’esito, forse insperato, di una eterogenesi dei fini, una volta tanto felice?

Insomma, il governo Draghi diventa per molti il momento della verità, anzitutto nei confronti di sé stessi.

Peraltro, neppure Draghi può fare tutto da solo, se le forze politiche, anziché assecondare e sostenere il suo lavoro nel segno di una generosa gratuità, secondo il monito severo del Presidente Mattarella, cercassero di succhiargli la ruota, dichiarando sì piena disponibilità nei confronti del governo che il Presidente incaricato si appresta a varare, purché nelle forme di una formula politica, come se si trattasse, anzitutto, di occupare posti in prima fila, al fine – si potrebbe dire – di catturare preventivamente il nuovo esecutivo in un perimetro caratterizzato in termini tali, da escludere altri possibili interlocutori.

Al contrario la “salvezza nazionale” esige una disponibilità senza riserve, lasciando al Presidente incaricato l’onere di comporre, sul piano del programma e della struttura dell’esecutivo, quei nodi che, alla luce dei reciproci apprezzamenti fin qui espressi, apparirebbero impossibili da sciogliere.

Così per quanto riguarda le idiosincrasie personali che pur ci sono

Il Paese va preso per mano ed anzitutto rassicurato perché, un po’ per volta, osi ancora sperare e si senta incoraggiato a persistere in un impegno oggi particolarmente difficile, ma sostenibile se accompagnato da una prospettiva di senso.

Certo non siamo al “sabato del villaggio” – “Or la squilla dà segno della festa che viene ed a quel suon diresti che il cuor si riconforta …” – ma con la buona volontà di tutti possiamo ancora metterci una pezza e poi ripartire davvero.

Domenico Galbiati

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