Il cigno nero del Corona virus lascerà strascichi economici e non solo in Italia. Nessuno, credo, ha gli strumenti per misurare oggi le dimensioni di tali strascichi.

Incontrerebbe altrettante, e forse maggiori, difficoltà chi volesse prefigurare gli effetti di questa nuova ondata di paura globale sulla dinamica delle relazioni sociali, nonché sulla consapevolezza diffusa dei rischi a cui sono esposte le nostre società e i nostri stili di vita.

Sulla scala delle vicende politiche nazionali, invece, credo che l’esercizio sia più facile. Almeno ci si può provare.

Ad esempio, ormai è prevedibile che prima della primavera 2022 rimarrà chiusa ogni possibilità di elezioni. Ciò significa che sarà questo Parlamento ad eleggere il nuovo Capo dello Stato. Ma credo sia molto probabile che ciò avverrà non più come effetto di un asserragliamento dell’attuale maggioranza nel fortino di Palazzo Chigi, come la cosa si prefigurava finora. Si arriverrà a quella scadenza seguendo un percorso diverso.

Oggi infatti la serietà della crisi del Paese (economica più che quella sanitaria) sposta in avanti il calendario, ma ricolloca anche su un piano differente tutto il gioco politico.

Credo che appaia sempre più chiaro (e la crisi ci aiuta in questo senso) come non si possa continuare – fino al 2022 o addirittura fino al 2023 come diceva baldanzosamente il premier Conte ancora poche settimane fa – con una situazione esasperata come quella che ha preceduto l’esplosione dell’epidemia: governo minoritario nel Paese, pieno di contraddizioni al proprio interno ed esposto all’alea di periodiche verifiche elettorali, opposizione perennemente sul piede di guerra che tenta la spallata ad ogni curva e – infine – Quirinale che si barcamena tra luoghi comuni irenisti e inesistenti emergenze antifasciste mentre sulla scena politica continua ad accadere di tutto, di più.

La spirale di delegittimazione reciproca delle forze politiche – e della politica tutta – e di demagogia trionfante che tutto questo determinava è oggi sotto gli occhi di tutti.

Ma ora, dopo il Coronavirus e soprattutto con la gravissima crisi economica che il virus lascerà, questo equilibrio da precario diventerebbe addirittura surreale. Insostenibile.

Credo invece che tutte le forze in campo – ciascuna ammettendo che le proprie ambizioni massime escono più o meno frustrate – dovranno in qualche modo acconciarsi a una prospettiva più lunga: un lavoro di un paio d’anni. Dovranno sviluppare almeno una capacità di sguardo proiettato su questo arco temporale. Dovranno, infine, accettare un certo livello di arbitraggio. Questo è il punto.

In che forma? Vedremo, ma è certo che dopo la crisi di queste settimane, esistono – prima di tutto i problemi del Paese. E questi – e non gli interessi parziali e di parte – devono occupare il centro della scena politica. Almeno finché durerà l’emergenza.

Chi non coglierà questo nuovo clima sarà tagliato fuori brutalmente da un’opinione pubblica che ha dimostrato di essere estremamente mobile.

Risollevarci da una nuova e più profonda recessione. Evitare che i nostri creditori esigano un livello più alto di garanzie (e quindi di interessi). Tenere sotto il livello di guardia la disoccupazione prima che si trasformi in sommossa sociale o (Dio ci salvi) in terrorismo. Trovare un modo finalmente “nazionale” (in cui siamo tutti dalla stessa parte) per discutere di come prevenire e gestire crisi migratorie pericolosissime, come quella che si è abbattuta in questi giorni sulla Grecia, che potrebbero facilmente verificarsi da noi a partire dai primi caldi primaverili. Trovare una dimensione autorevole e credibile per stare – come Paese – sulla scena internazionale, a partire dalle istituzioni europee. Insomma, gestire in modo intelligente l’emergenza.

La crisi del corona virus (forse) sta aprendo gli occhi su una dimensione di concretezza che aiuterebbe molto anche in futuro.

Se così fosse ne discenderebbe che vanno in secondo piano i falsi problemi e tutto quel genere di politica e di politici che vivono o di invettive e di denunce urlate a squarciagola (casta, “inciuci”, neonazismo, ecc.) o di immaginifiche e romantiche (quanto indeterminate) “rivoluzioni”: nuovi modelli economici a misura d’uomo, democrazia della rete, rinaturalizzazione del territorio, ecc. ecc.

Oggi, il recupero di un concreto pragmatismo, che nasce dall’emergenza ma si proietta al di là di essa, rappresenterebbe una svolta davvero importante. La più favorevole per chi crede sia ancora possibile riportare in auge, in questo Paese, i valori, il pensiero razionale e la cultura quali componenti imprescindibili dell’agire politico.

Enrico Seta

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