I commenti sul quadro politico dopo il voto referendario e amministrativo in 7 Regioni parlano di una sostanziale stabilità. Altri la chiamano “palude”, ma il concetto è praticamente lo stesso. Come sintesi post elettorale pare corretta, ma non mancano gli spunti per un’analisi più approfondita. E partiamo dai dati di fatto, cioè dai numeri, che non sono un’opinione.

Prima di tutto il referendum. Il 70% degli italiani ha approvato il taglio secco dei parlamentari. Un risultato del tutto scontato: con la fiducia nella classe politica e nei partiti da anni precipitata a percentuali racchiuse nelle dita di una mano, non poteva essere diversamente. Chi si è esposto per il No – come noi abbiamo fatto in un documento (CLICCA QUI) che ha trovato consensi in altri mondi culturali e una buona eco sui media (CLICCA QUI) – lo ha fatto per sostenere il valore della democrazia rappresentativa disegnata nella Costituzione, ben sapendo però di combattere per una causa persa in partenza, visto il discredito progressivamente accumulato dai politici della Seconda Repubblica. Un discredito che giustifica il 46% di non partecipazione al voto, più o meno la stessa percentuale di astenuti alle elezioni europee dello scorso anno. Neppure la ghiotta occasione di assestare un colpo alla “casta” ha smosso verso i seggi un terzo dell’elettorato: senza con questo voler affermare che chi non è andato a votare sostiene le ragioni del No, tuttavia è innegabile che il taglio delle poltrone propagandato da Di Maio ha lasciato freddi tanti milioni di elettori, non convinti che avere meno parlamentari risolva i problemi di qualità e competenza di una classe politica di “nominati” lontani dal popolo perché troppo impegnati a fare ala al proprio capo.

La vittoria del Sì è stata indubbiamente netta, ma inferiore alle previsioni. È vero che molte personalità, di partiti e culture diverse, si sono espresse a favore del No. Ma dobbiamo sempre partire da quel 95% di italiani che dichiara sfiducia nei partiti esistenti; o dal 97% di favorevoli al taglio (tutti i partiti tranne +Europa) nella votazione alla Camera; o dall’88% se pensiamo che la settantina di deputati che non hanno partecipato alla votazione fossero contrari al provvedimento (senza il coraggio di prendere posizione… Altro che “liberi e forti”…). Ebbene, il Sì si è fermato appena sotto il 70%. E 7 milioni e mezzo di italiani hanno votato No.

Al referendum sulla riforma Renzi-Boschi del 2016, sonoramente bocciata dal 60% dei votanti (con significativa affluenza del 65,5%), gli istituti di sondaggio avevano distinto in due terzi il voto contro Renzi al governo (principalmente elettori grillini e leghisti) e in un terzo coloro che votarono No nel merito della proposta, per evitare che la Costituzione venisse squilibrata a vantaggio dell’Esecutivo. Si trattava allora di 6 milioni e mezzo di persone preoccupate per l’attacco alla democrazia rappresentativa. Un attacco più subdolo nel progetto Renzi, molto più esplicito oggi: le parole di Beppe Grillo – rimando al nostro Carlo Baviera per commentarle (CLICCA QUI) – hanno reso evidente (speriamo anche a qualche anima bella che ha fissato il dito invece di guardare la luna) un disegno che con Guido Bodrato e altri amici avevamo indicato come uno dei principali motivi per votare No. Che poi il disgusto verso la pochezza e l’autoreferenzialità dell’attuale classe politica abbia causato la facile vittoria del Sì, nulla toglie alla correttezza dell’analisi.

Al risultato del referendum si aggrappano i Cinquestelle per non colare a picco. Di Maio gongola per il taglio dei parlamentari, e a modo suo può definirsi un vincitore. Ma il risultato del Sì non ha avuto alcun effetto-paracadute sulla picchiata dei Cinquestelle, che è rovinosa. In soli due anni, dalle politiche del 2018, il movimento è riuscito a passare dal 45% a circa il 10 in Puglia e Campania, dal 35 all’8% nelle Marche, dal 30 all’8% nella Liguria di Beppe Grillo, dal 25% al 7 in Toscana e al 3 in Veneto. Un tracollo mai visto. Matteo Renzi, per fare un paragone, è stato capace di far passare il PD dal 41% al 18%, ma in 4 anni. Di Maio e compagnia, in soli due anni di governo, hanno perso oltre tre quarti del loro consenso. Adesso il movimento è in fibrillazione, si aprirà un dibattito interno, destinato tuttavia a non avere sbocchi: governare non è come spararle grosse dall’opposizione, e la pochezza della classe dirigente grillina – ormai evidente all’elettorato – non permetterà colpi d’ala. E neppure colpi di testa, dato che il M5S ha il solo obiettivo di evitare le elezioni, che decimerebbero la sua rappresentanza parlamentare. Il tirare a campare si rivelerà l’unica strategia possibile.

Se i Cinquestelle sono i veri sconfitti dalle urne, gli unici vincitori sono i governatori di Veneto, Campania, Liguria e Puglia. Per Zaia si è trattato di un plebiscito (77%), per De Luca quasi (69%), mentre Toti si è imposto largamente (56%) ed Emiliano con il 47% ha vinto bene una partita sulla carta incerta. Tutti hanno beneficiato della forte esposizione nei mesi difficili dell’emergenza Covid, rappresentando punti di riferimento per gli abitanti delle loro Regioni. C’è chi sostiene che questi successi dimostrano che gli italiani apprezzano le guide forti (pensiamo allo “sceriffo” De Luca) e su questo ci sarebbe da riflettere…

Degli altri si potrebbe dire che nessuno, considerate le attese della vigilia, può affermare a ragione di avere vinto, anche se tutti hanno ovviamente dichiarato il contrario.

Non Matteo Salvini, che ha fallito l’assalto alla Toscana – il suo vero obiettivo – e si ritrova ad avere in Zaia un pericoloso concorrente interno, capace in Veneto di ottenere con la sua lista di appoggio il triplo di voti rispetto alla Lega di osservanza salviniana.

Non Giorgia Meloni che ha da compiacersi per la bella vittoria nelle Marche del suo candidato presidente Acquaroli, ma che ha fallito la sperata doppietta in Puglia con Fitto.

Non Matteo Renzi che esibisce il neo presidente della Toscana Giani come suo uomo, ma deve registrare nella sua Regione un modestissimo 4,5% a Italia Viva (che si presentava insieme con +Europa); per non parlare del penoso risultato ottenuto in Puglia dal suo candidato Scalfarotto (1,6%), con voto per il partito addirittura inferiore (1,1%).

Non Nicola Zingaretti, che una certa stampa di regime ha messo tra i vincitori delle elezioni: perse le Marche, fallita l’alleanza con i Cinquestelle in Liguria (il candidato congiunto si è fermato al 38%), gli “eretici” De Luca ed Emiliano sugli scudi (e meno male per il segretario PD che abbiano vinto). C’è poco da festeggiare dalle parti del Nazareno: giusto un brindisi per lo scampato pericolo di perdere la roccaforte Toscana, ma niente di più. Per i democratici vale poi il discorso fatto per i Cinquestelle sulla mancanza di alternative alla coabitazione forzata al governo: lo sbocco delle elezioni anticipate non è contemplato dai parlamentari del PD, partito che – numeri alla mano – non recupera voti mantenendo sostanzialmente il consenso delle ultime elezioni europee malgrado il passaggio in maggioranza al governo.

Da questa situazione generale trae qualche giovamento il premier Conte: pur se politicamente penalizzato dal fallimento in Liguria del candidato unico M5S-PD, alleanza strategica da lui auspicata e rivelatasi perdente, può tuttavia proseguire nel suo incarico per mancanza di alternative in un quadro politico che non ha avuto scossoni dal voto.

L’impasse che si è creata lascia intatto un grande spazio politico che gli attuali, logori attori sulla scena non rappresentano. Per un nuovo soggetto politico che si presenterà sulla scena forte della tradizione del popolarismo, declinata da facce nuove con innovative proposte programmatiche, la platea potenziale è enorme. Bisogna però saper pensare in grande e avere coraggio. Due requisiti non banali e non scontati dopo decenni di piccolo cabotaggio e sostanziale irrilevanza dei cattolici sulla scena politica della Seconda Repubblica.

Alessandro Risso

 

Pubblicato su Rinascita Popolare dell’Associazione i Popolari del Piemonte ( CLICCA QUI )

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