In una sua nota, pubblicata il mese scorso su Politica Insieme, Vincenzo Bova – a proposito di impegno politico dei cattolici tra “convergenze” e “differenziazione” – poneva una questione che merita di essere ripresa, in ordine alla riproposizione di una presenza politica di ispirazione cristiana.
Intendiamo essere – così la pone Bova – “unionisti” o “disseminatori”?
Cioé – se ho inteso bene – pensiamo ad un raccordo ideale tra credenti, ad una comune attestazione di valori dentro le più varie forme culturali, sociali, politiche e civili così come di fatto si pongono oggi, aperte a tutti?
Quindi un’ azione, appunto “disseminata”, che sia, ad un tempo, di testimonianza, ma anche di sollecitazione e di provocazione critica entro tali ambiti di ampio pluralismo culturale.
Oppure dobbiamo rimettere in campo una compagine, sicuramente aconfessionale e laica, ma impegnata espressamente – in maniera strutturata, con una propria specifica forma organizzativa – a declinare, sul piano civile, adottando un linguaggio che, evidenziandone l’intrinseca ricchezza di valore umano, li renda accessibili ad ognuno, contenuti tratti anche dal nostro condividere una comune fede religiosa?
Ovviamente, si tratta di due atteggiamenti ugualmente legittimi, la cui scelta dipende, in buona misura, dalla particolare sensibilità di ciascuno ed il cui valore, per ambedue, si misura con la capacità di affermare una identità non arroccata ed autoreferenziale, bensì aperta, fatta di dialogo, di capacità d’ascolto, di incontro.
L’identità, infatti, nulla ha a che vedere con una declamazione stentorea, astratta, avulsa dalla storia di ciò in cui si crede.
E chi scegliesse l’opzione “unionista” a quale strategia dovrebbe pensare? Un percorso “top-down” o piuttosto “bottom-up”?
In altri termini, meglio pensare ad una sorta di “costituente” che, attraverso un impegno dei rispettivi vertici, metta attorno ad un tavolo varie sigle per un qualche patto federativo calato dall’alto?
Oppure, è piuttosto opportuno favorire una libera, autonoma, progressiva convergenza di tante esperienze e di amici che, presi anche singolarmente, avvertono l’urgenza di assumere in prima persona una responsabilità politica ed accettano di sviluppare le competenze necessarie a tale fine?
Forse ci può aiutare una analogia tra la dimensione collettiva del movimento o partito che sia ed il percorso individuale di chi si avvicini all’impegno politico.
Infatti, la politica prima che una dottrina e’ un’esperienza. Fortunatamente non ci si arriva per averla studiata sui libri. Se non fosse così sarebbe un fatto elitario, un po’ intellettualistico e salottiero. Sarebbe, se mai, politologia che è tutt’altra cosa.
Invece il bello della politica è la sua dimensione popolare, idealmente aperta a tutti, in sé democratica, senza distinzioni, senza barriere di censo o di cultura. E, nel contempo, rispondente ad una attitudine strettamente personale, difficile da definire; un mix di istintiva curiosità per le cose del mondo e la pretesa, perfino un po’ utopica ed irrazionale, che se ne possano governare gli sviluppi. Ed ancora, la presunzione che valga la pena che ci si provi, meglio se accompagnata da una manciata di autoironia, una dimensione che a chi fa politica non dovrebbe mancare mai.
Si potrebbe dire, insomma che la politica – spesso in sé difficile – è fatta per tutti, ma non tutti sono fatti per la politica. Per questo non si puo’ essere arruolati all’impegno politico attivo, come per una leva obbligatoria.
Non esiste, dunque, un “federatore” designato, o che da sé possa proporsi come tale, ma piuttosto soggetti che liberamente si associano in un nucleo originario, attorno a cui, via via, altri, altrettanto liberamente, convergano. Non a caso, alcuni tentativi di reti precostituite non hanno attecchito.
Del resto, la politica si impara solo praticandola, nel vivo degli eventi così come accadono, secondo l’impellenza del momento, dentro il disordine vero o apparente delle cose che si accavallano le une sulle altre, imparando ad apprezzare quel rumore di fondo della storia che sembra una cacofonia, senonché, via via, l’attitudine crescente ad una lettura attenta di cio’ che succede attorno, porta, un po’ alla volta, a decifrare piuttosto in quel frastuono assordante un motivo conduttore, un ritmo che restituisce un ordine decifrabile, un senso all’ accadere in sé, cosicche’ ti accorgi, se si asseconda questa cadenza, che quel che vedi capitare in qualche modo ti riguarda perché, grazie alla chiave di lettura della politica, ci puoi incidere, per poco che sia.
Anche per questo la politica è un vizio che è meglio prendere da giovani. Ci si deve fare il palato. In definitiva, infatti, cos’è se non un modo di dire il mondo, in sostanza un linguaggio?
Per questo, come per le lingue estere, o ti ci metti per tempo, oppure, per quanto ne studi la grammatica e la sintassi, il tuo eloquio non sarà mai fluente, come nel caso della lingua madre.
Esige una congiunzione armonica tra i pascaliani “spirito di geometria” e “spirito di finezza” che danno luogo a quella disposizione cognitiva propria della politica che potremmo chiamare un “sapere sulla pelle”.
Per questo, se vogliamo riaccendere il motore di una presenza di ispirazione cristiana, non possiamo aspettarci, da nessun demiurgo, una soluzione chiavi in mano.
Per quanto gli eventi incalzino, ci vuole tempo, pazienza, fatica ed un over-dose di umiltà; ci vuole generosità, un sentimento di gratuità e disincanto; ci vuole disinteresse personale.
Non ci sono scorciatoie, non sono ammesse improvvisazioni, non servono presunzioni, né personalismi più o meno supponenti.
Domenico Galbiati
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