Una regione del mondo che si vuole continuare a tenere in ebollizione. Trovato un modus operandi in Libano, che resta comunque pieno di incognite, e che certamente non può essere considerato di per sé un elemento conclusivo, ecco che, d’improvviso, si ripresentano sulla scena siriana gli spettri del passato jihadista.
Non siamo ai livelli di Bin Laden, ma, quasi dal nulla, spunta un esercito di circa 60 mila uomini che già nel 2018 è stato inserito dal Dipartimento di stato Usa nell’elenco delle organizzazioni terroristiche nonostante il divorzio ufficiale da al-Qaeda avvenuto nel 2017.
Si muovono autonomamente nel tentativo di attaccare il regime di Bashar al Assad fino al cuore di Damasco, e magari approfittando di un oggettivo vuoto di potere internazionale che sembra durare dal 7 ottobre dello scorso anno quando Hamas attaccò tanto sanguinosamente Israele? Oppure, si confermano quelle voci che vorrebbero prefigurare uno sbocco in una vera e propria guerra regionale da parte di chi vuole chiudere delle partite aperte da decenni e che non hanno mai trovato una soluzione definitiva?
La Russia, se questo è uno degli obiettivi, ha risposto impegnandosi direttamente nella prima immediata reazione all’attacco ad Aleppo e, secondo alcune fonti mediorientali, avrebbe subito eliminato con un bombardamento mirato Abu Mohammad al-Jolani, il capo del rinato esercito jiadista, da lui riorganizzato mettendo insieme ben 60 organizzazioni e gruppi diversi. Putin non è certo intenzionato a perdere la Siria, il suo controllo delle due basi militari ereditati dai tempi dei sovietici e diventate, di fatto, il vero punto di presenza armata russa nel Mediterraneo.
Insomma, la situazione si complica a pochi passi da casa nostra e, appunto, paghiamo il prezzo, e ancora di più le popolazioni di una larga parte orientale della sponda sud del Mar Mediterraneo, di un confronto che non è più “freddo”, ma caratterizzato da guerre regionali estremamente distruttive e sanguinose.
Il rischio di un allargamento del conflitto, che finora ha diviso Israele dai palestinesi e da Hezbollah, potrebbe diventare più concreto proprio con il passaggio di consegne alla Casa Bianca. E le divisioni interne al mondo occidentale non aiutano certo a trovare una soluzione. Così come vale per le stesse accese polemiche interne ad Israele.
Dicendo di parlare anche a nome di alcuni comandanti israeliani operanti in Gaza, l’ex ministro della Difesa del precedente Governo Netanyahu durante la seconda Intifada, cioè una rivolta diffusa dei palestinesi della Cisgiordania, e la Guerra di Gaza del 2014, Moshe Yaalon, ha accusato Netanyahu di esporre i militari israeliani a processi dinanzi alla Corte penale internazionale, oltre che a mettere a rischio le loro vite.
E significativamente, la stampa internazionale ha dato un grande rilievo alle dichiarazione di Yaalon che rimprovera a Israele di condurre a Gaza una vera e propria “pulizia etnica” e compiere crimini di guerra.