Pubblichiamo la prima parte di un intervento del coordinatore del Dipartimento di Insieme sull’Innovazione, Andrea Tomasi. Domani sarà la volta della seconda parte.

Premessa.

Senza la pretesa di scrivere un trattato sull’innovazione, e sulle politiche che ne promuovano lo sviluppo, accenno ad alcuni elementi di contesto e alcune linee di evoluzione che identificano, a mio avviso, i nodi fondamentali su cui intervenire e le contraddizioni interne su cui riflettere. Qualche approssimazione sarà inevitabile, e necessario il contributo di altri Dipartimenti ad arricchire le proposte, per la natura trasversale del tema considerato.

L’innovazione è diventata, da qualche decennio, la nota sociale dominante, per effetto della rapidità dei cambiamenti e della complessità dei fenomeni, per cui l’innovazione su singoli punti del sistema produce effetti innovativi sull’intero sistema. D’altra parte, l’evoluzione di un sistema che presenti aspetti rilevanti di novità e complessità richiede di essere governata con approcci innovativi. Vale per i sistemi produttivi, per i sistemi organizzativi, per i sistemi sociali.

L’ INNOVAZIONE E’ TEMA TRASVERSALE E INTEGRATO, TEMA “DI SISTEMA” CHE RICHIEDE UN APPROCCIO DI SISTEMA

        1.INNOVAZIONE E  CAMBIAMENTO

Definisco “innovazione” il cambiamento che interviene su un processo (inteso in senso lato, può essere un processo produttivo, oppure un processo sociale o culturale) introducendo significative differenze di prestazioni, di qualità, di costo.

Il concetto di innovazione applicato al ciclo di vita di un prodotto (bene o servizio) significa l’avvio della fase di sostituzione e l’inizio di un nuovo ciclo (ideazione, progettazione, realizzazione, distribuzione, gestione, sostituzione).

Tale definizione mette in evidenza come l’innovazione sia il risultato di intuizioni e idee che incontrano una congiuntura favorevole, in cui confluiscono positivamente le acquisizioni scientifiche, le disponibilità tecnologiche, la capacità produttiva industriale e le richieste di mercato.

A conferma del fatto che non possiamo ridurre l’innovazione alla genialità inventiva, possiamo citare alcuni esempi che considero clamorosi:

– negli anni ’70 e ’80 l’Italia era all’avanguardia nel settore dei computer, come anche dell’elettronica e delle telecomunicazioni, e la produzione di software è una attività relativamente poco costosa, ma SAP è nato in Germania e il sistema operativo DOS in un garage californiano, mentre Federico Faggin va a produrre i microprocessori con Intel, prima di fondare Zilog (del resto, prima di lui era accaduto a Guglielmo Marconi, mentre è nota l’invenzione di Meucci sfruttata industrialmente da Bell);

– l’industria italiana vanta uno storico primato nell’artigianato dei mobili, ma IKEA nasce in Svezia;

– la manifattura tessile italiana ha (aveva) aziende di eccellenza, ma Zara nasce in Spagna (Benetton, OVS, Calzedonia fatturano tutti insieme un quarto del fatturato di Zara).

Sembra evidente concludere che l’innovazione è un fatto “di sistema”. Un sistema in cui le idee creano innovazione, l’utilizzo dell’ innovazione in prodotti e servizi crea valore, e la richiesta del mercato crea reddito (e lavoro?), in una catena virtuosa. Una catena in cui ci possono essere “anelli deboli”: una innovazione anticipata può incontrare difficoltà a diffondersi sul mercato, oppure può trovare insufficienti competenze nella fase di produzione o di assistenza post-vendita; la competizione e la concorrenza possono provocare diffusioni intempestive e cicli di vita troppo corti, con effetti negativi sul costo e sulla redditività (ad esempio per un mancato ammortamento dei costi di progettazione o per un eccesso di costi di sostituzione, che si possono riflettere su un aumento dei prezzi).

In quanto fatto “di sistema”, sostenere l’innovazione significa quindi intervenire con politiche che promuovano tutti gli aspetti: il capitale umano (idee imprenditoriali e competenze della forza-lavoro), il sistema produttivo, il credito alle imprese, la richiesta di mercato.

PRIMA CONTRADDIZIONE: L’innovazione si esprime puntualmente, ma è il risultato di un contesto globale. Il sostegno all’innovazione deve agire a livello di sistema, ma gli effetti si vedono in ambiti ristretti. In un sistema a risorse finite, occorre scegliere quali obiettivi sono da considerare strategici e prioritari.

  1. INNOVAZIONE E CAPITALE UMANO

Gli innovatori sono persone dotate di grande capacità creativa, ma anche di notevole competenza imprenditoriale. “Stay foolish, stay hungry” (Steve Jobs) è il loro marchio di fabbrica. Tradotto in qualità umane, si potrebbe dire: “capaci di navigare a vista, negli scenari continuamente mutevoli, ma con una meta strategica; capaci di inseguire i sogni, ma con piani di realizzazione rigorosi e economicamente sostenibili”. Persone che abbiano contemporaneamente capacità di “vision” e competenza nell’ “implementation”.

Formare persone con tali qualità non può che partire dalle attitudini personali, ma deve evitare di spegnere entusiasmo e inventiva, anzi deve avere contenuti e metodi in grado di incentivarli.

Il primo requisito per una generazione di persone creative è dunque quello di orientare in tal senso la formazione scolastica a tutti i livelli: formazione professionale (scuola, IFTS, ITS) e formazione permanente; formazione universitaria e post-universitaria. Non si tratta, a mio avviso, in primo luogo di riempire i programmi di contenuti e conoscenze, ma di coltivare mentalità aperte e vivaci, di promuovere “pensiero critico” superando la logica del “pensiero unico” e della mera trasmissione di competenze tecniche.

Il mercato delle professioni diventerà sempre più fluido e in cambiamento, perché l’aggiornamento di conoscenze dovrà essere continuo, in modo da seguire il ritmo dell’evoluzione tecnologica.

Il ruolo delle istituzioni scolastiche, delle Università, delle Agenzie formative, delle Associazioni di categoria, riguardo alla formazione, può essere meglio trattato nelle proposte dei rispettivi Dipartimenti (Scuola, Università, Formazione, Lavoro, Industria). In questa sede si evidenzia soltanto la necessità di rendere il sistema formativo complessivamente più dinamico e flessibile, in modo da poter cambiare contenuti con procedimenti amministrativi che si possano completare rapidamente e con semplicità, e attivare un modello di formazione professionale meno vincolato alle procedure burocratiche e maggiormente orientato a formare le competenze richieste dalle nuove professioni.

Nell’ambito delle nuove professioni legate all’innovazione digitale occorre notare che le elevate competenze richieste rischiano di creare forme di divario digitale ancora poco avvertite, legate alle attitudini più che alle competenze: agli imprenditori digitali si affiancheranno un ristretto numero di tecnici di alta professionalità e una fascia più ridotta di tecnici esecutori. Ci sarà poi una fascia più ampia di utilizzatori capaci di sfruttare l’innovazione per produrre nuovi beni o servizi. Una parte di attività, legate alle capacità umane non sostituibili dalla tecnologia, costituirà il confine tra mondo del lavoro e povertà di sussistenza, una fascia di persone che potrebbe crescere notevolmente nei prossimi anni.

I dipartimenti Lavoro, Welfare, Terzo Settore, oltre a quelli legati alle attività economiche e produttive, possono utilmente approfondire le prospettive che qui sono appena delineate.

Le prospettive future richiedono interventi di governo dell’economia digitale lungimiranti e tempestivi, perché le situazioni descritte si verificheranno nel giro di qualche decennio. Il diritto e le leggi non riescono però ad adeguarsi tempestivamente, perché sarebbe necessaria una regolazione a livello mondiale, che trova ostacoli non banali nelle differenze di cultura giuridica, oltre a quelle evidenti legate alla natura dei problemi relativi ad attività globali e dislocate in luoghi diversi.

SECONDA CONTRADDIZIONE: L’innovazione digitale è fonte di sviluppo economico e (potenzialmente) di benessere sociale, ma allo stesso tempo intrinsecamente generatrice di disuguaglianze culturali, sociali e, in maniera crescente, economiche, se non governata opportunamente. Cosa non facile, perché legata ad un elemento immateriale, la creatività e a un risultato impersonale (nel senso etimologico di attività svolte da automi ed algoritmi).

  1. IL MODELLO DI INNOVAZIONE DIGITALE

Negli ultimi 50 anni l’innovazione più significativa si è vista nelle tecnologie digitali, principalmente perché sono tecnologie che in qualche modo sono diventate abilitanti per l’innovazione in tanti altri settori.

L’innovazione digitale presenta alcune caratteristiche interessanti:

a) Dal sottoscala al monopolio: bastano pochi soldi e buone idee quando il mercato è libero, si può crescere con capitali autofinanziati e con acquisizioni, ma ci vogliono grandi investimenti per entrare in concorrenza in un mercato competitivo dominato da attori monopolistici. Le alternative proposte fino ad ora (ad es. lo sviluppo di soluzioni software “open source”) richiedono livelli di competenze e interazioni di gruppi scientifici a livello mondiale, realizzate su obiettivi limitati. Le grandi aziende, invece, progressivamente estendono le loro attività in settori diversi e complementari rispetto a quello originario, ad esempio gestendo in proprio logistica e trasporti (Amazon), sviluppando applicazioni e servizi anche attraverso l’acquisizione di piccole società focalizzate su prodotti di nicchia, fino a ipotizzare di fare concorrenza alle banche e gestire transazioni e contratti o sostituirsi alle banche centrali e “battere moneta” (elettronica).

b) Dal garage al mondo: Partita da un garage, l’impresa digitale è ormai una realtà di scala mondiale. E paradossalmente si potrebbe affermare che l’emissione di azioni sia diventata la principale fonte di guadagno delle aziende tecnologiche (Apple, Amazon, Facebook, Google, Microsoft). La competizione mondiale è ristretta ad un ridotto numero di “colossi” (negli USA, oltre a quelli citati, Intel, Cisco, Oracle, Alibaba, Huawei, Xiaomi, Samsung e Infosys in Asia). La continua innovazione fa parte dell’offerta competitiva.

c) Dalla proprietà all’uso. La cosiddetta “sharing economy” nasce nel contesto delle tecnologie digitali: la gestione dei sistemi diventa più conveniente in outsourcing, i servizi migrano in rete, i dati nel “cloud”, dopo l’hardware anche il software può essere utilizzato come servizio a consumo. La trasformazione dei costi fissi in costi variabili viene incentivata non solo nella gestione delle aziende, ma anche dei bilanci personali e familiari. La gestione informatizzata permette di ridurre la complessità delle operazioni.

d) Dal bene “utile” al gadget elettronico: poiché il mercato può non sostenere il ritmo di sostituzione delle innovazioni tecnologiche, la loro diffusione viene incentivata con l’uso di tecniche di “mercato emotivo”, rendendo i prodotti digitali simboli di distinzione e promuovendone la vendita nelle fasce più giovani della popolazione.

e) “ICT everywhere”: i sistemi digitali si integrano con prodotti tradizionali per dare valore aggiunto, e in prospettiva si connettono in una unica rete che permette la raccolta dei dati e il controllo a distanza. I sistemi embedded si indirizzano ad essere sistemi autonomi, “intelligenti”. La rete “intelligente” diventa l’infrastruttura per nuovi servizi o per la trasformazione di servizi tradizionali: gestione della sicurezza e dei dati personali, manutenzione remota e predittiva, commercio elettronico, supply chain integrata e commercio collaborativo, servizi consulenziali, … I flussi immateriali (dati e pagamenti) si affiancano in maniera consistente ai flussi fisici dei beni scambiati.

f) “produzione senza occupazione”: la diffusione e il perfezionamento delle tecnologie di intelligenza artificiale, applicate all’automazione industriale e ai servizi permette in misura crescente di sostituire lavoro umano con il lavoro delle macchine. Le politiche del lavoro e le politiche previdenziali si mostrano impreparate a gestire i nuovi scenari.

g) I costi nascosti dell’energia: il consumo di energia dei sistemi ICT (server e infrastruttura di rete, alimentazione di computer, tablet e cellulari) tendono ad essere trascurati, ma le proiezioni a livello mondiale attestano che diventerà una quota significativa del consumo totale di energia (circa il 10% dell’energia elettrica) e dell’emissione di CO2. In un Paese come l’Italia che ha in maniera scellerata abbandonato il nucleare, in cui aveva una posizione di avanguardia, il costo dell’energia rappresenta anche in questo settore una tassa penalizzante.

TERZA CONTRADDIZIONE: L’economia digitale nasce con pochi mezzi e tende al monopolio, si sviluppa in forme collaborative ma è altamente competitiva. Il rapporto classico tra capitale, lavoro e produzione si trasforma radicalmente, e vede attualmente affermarsi l’ indipendenza dei fattori tecnologici e la loro prevalenza sugli altri fattori. L’infrastruttura di rete è fisica ed anche, in un certo senso, immateriale, le applicazioni hanno utenti localizzati ma gestione distribuita e de-localizzata, il consumo di energia e l’emissione di CO2 raggiungono quote significative. ( Segue )

Andrea Tomasi

 

Immagine utilizzata: Pixabay

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