C’è almeno un significato chiaro di quanto è avvenuto con la elezione del Capo dello Stato dopo una settimana tanto strampalata da apparire quasi comica. Ed è il seguente: la cosiddetta “Seconda Repubblica”, non quella nata dalla Resistenza ma dalla la strage dei partiti storici, spazzati via dagli eccessi di “Mani pulite”, appare questa volta in coma irreversibile.

I sintomi sono conosciuti da tempo: la rissa tra i diversi comitati elettorali (quelli di oggi non possono dirsi partiti) ha preso il posto del dialogo con gli elettori; alcuni capi si sono dimostrati inaffidabili; l’improvvisazione è diventata la regola; le radici storiche delle forze politiche sono negate secondo la presunzione contraffatta del tramonto delle ideologie.

Certo non mancheranno i tentativi di rianimazione già sussurrati in queste ore con il rilancio delle coalizioni. Ma dureranno poco, non oltre la prossima scadenza elettorale tra un anno o poco più.

In un Paese normale sarebbe bastato molto meno per assistere alle dimissioni di un leader o meglio ancora alla convocazione di congressi di partito, almeno per avviare un confronto interno non limitato agli addetti ai lavori, ai capi bastone e ai loro lacchè della carta stampata.

Figuriamoci parlare di congressi: Il Pd ha cambiato cinque segretari in quattro anni; l’ultimo congresso della Lega è durato due ore; Forza Italia è di proprietà privata e il Movimento 5 Stelle  non ne ha mai fatto uno. E questi sono i risultati dei partiti di oggi.

Per non dire dei testimoni viventi delle grandi culture politiche che pure in Europa ci sono e si manifestano apertamente. Dice che oggi ci sono i social, cioè lo spazio infinito dove tutti possono dire tutto e il contrario di tutto in tempo reale, dove anche l’imbecille può avere visibilità e dove l’informazione non è sempre affidabile. Sono strumenti che avranno anche cambiato il modo di fare politica ma che non potranno mai negare una lunga storia che appartiene alla nazione tutta.

Al centro della elezione del Capo dello Stato, al di là delle solite dichiarazioni, non si è mai avuta la percezione che fossero in gioco questioni decisive della vita del Paese come l’emergenza sanitaria da superare, l’emergenza economica da consolidare, le lacerazioni nella vita sociale, ma piuttosto una contesa permanente sul potere, tra la paura di alcuni di una fine anticipata della legislatura e l’impazienza di altri con l’ambizione di riscuotere qualche voto in più. Ecco perché non è scontato che i tentativi di rianimazione di cui già parlano gli interessati riusciranno.

Il rilancio del ticket Mattarella- Draghi resta l’unico elemento di speranza di un Paese che in fondo, in poco più di un anno, ha dimostrato  di possedere. Il balzo del PIL che non conoscevamo da oltre quarant’anni dopo un declino della crescita a percentuali di zero virgola, la creazione di mezzo milione di nuovi posti di lavoro dopo il disastro della pandemia, i nuovi rapporti con l’Europa dimostrano che un respiro strategico di governo c’è e lo legittima nonostante la strana alleanza di necessità che lo sostiene.

Difficile quindi concordare con l’appello di Gustavo Zagrebelsky che invoca il silenzio dopo avere giustamente dato atto del senso di responsabilità del presidente Mattarella. Non è tempo di stare in silenzio quando si devono rimuovere le macerie di ciò che è avvenuto. Basterebbe la considerazione che sui 988 parlamentari in carica quelli che hanno cambiato bandiera in meno di quattro anni di legislatura sono ben 200, un terzo dei quali solo del Movimento 5 Stelle.

Come è possibile pretendere che un Parlamento così ridotto possa stabilire, ad esempio, le nuove regole di una legge elettorale pure necessaria dopo la discutibile decisione di ridurre il numero dei parlamentari? Ed è qui, come per le riforme già avviate, che dovrà imporsi l’ostinazione della politica. Non come cartografia del potere ma come  ragione di una sorte condivisa dove  i partiti tornino a  riflettere sul loro rapporto non solo con le istituzioni ma con tutta la società.

Guido Puccio

 

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