Premessa:   Mentre in Israele riprende il processo per corruzione contro il premier Netanyahu, accusato di aver fatto uso illegittimo del potere, a Vienna rappresentanti degli Stati Uniti stanno partecipando insieme a delegati di Europa, Russia e Cina ad un inizio di trattative indirette con la Repubblica Islamica dell’Iran. La posta in gioco: un nuovo accordo sul nucleare.

La ripresa dei negoziati si spiega con il recente cambio di amministrazione a Washington. Firmato a Vienna nel Luglio del 2015 all’epoca del secondo mandato del presidente Obama, il Trattato (JCPOA) è stato il risultato più importante della sua amministrazione e ha rappresentato una pietra miliare nei rapporti tra gli Stati Uniti e l’Iran.

 Scopo dell’accordo non era tanto impedire all’ Iran lo sviluppo dell’arma atomica, quanto guadagnare quel tempo necessario per consentirgli una crescita economica tale da far sì che potesse integrarsi nuovamente nella comunità internazionale. Si sarebbero poste le basi per quella prosperità necessaria a sostenere e rinforzare le classi medie, garantendo allo stesso tempo una graduale evoluzione del regime nei suoi rapporti con la propria gente e con il resto del mondo.

In quei 10 o 15 anni garantiti dal trattato, l’auspicio era che Teheran avrebbe rinunciato alle sue eventuali velleità nucleari e che sia lì che in Medio Oriente di fronte alle sfide del nuovo secolo la situazione avrebbe potuto virare verso il meglio. Chi mai nel 1975 avrebbe potuto indovinare che 14 anni dopo sarebbe scomparso il comunismo e si sarebbe dissolta l’URSS?

 Le trattative – a momenti anche piuttosto tese – erano riuscite a trovare un equilibrio tra le esigenze delle parti coinvolte. Considerando il punto di partenza e prendendo spunto dal passato, l’accordo risultava essere la migliore delle soluzioni.

 Alcune parole sull’accordo nucleare:  Composto da due parti, nella prima l’Iran si impegnava a rinunciare ad ogni programma nucleare avente implicazioni militari. Nella seconda, in cambio, otteneva la rimozione delle sanzioni e soprattutto l’apertura ai commerci con l’Occidente. Fino a quel momento Teheran aveva insistito sul fatto che le sue ricerche miravano alla realizzazione di impianti e tecnologie per uso civile e non alla costruzione di ordigni bellici. Le sanzioni precedentemente imposte avevano seriamente ostacolato lo sviluppo ed indebolito l’economia del Paese: crescita e modernizzazione risultarono gravemente compromesse.

Va ricordato che l’Iran aveva firmato il Trattato di non Proliferazione nel Luglio del 1968. Questo autorizzava la ricerca per lo sviluppo nucleare in ambito civile e non vietava la tecnologia ad uso duale. Erano addirittura consentite la propulsione nucleare navale e l’uso di esplosioni atomiche in ambito di ingegneria civile. Ad essere proibita era solamente la fabbricazione di ordigni bellici.

 L’accordo di Vienna, faticosamente raggiunto nel Novembre 2015, servì anche ad aprire la via ad un miglioramento delle relazioni con gli Stati Uniti, pessime sin dalla Rivoluzione del 1979. Erano successivamente peggiorate a seguito della Crisi degli Ostaggi, che aveva visto un certo numero di funzionari dell’Ambasciata americana di Teheran prelevati con la forza e tenuti poi prigionieri per 444 giorni.

Un cambio di amministrazione alla Casa Bianca:   Con l’arrivo del presidente Trump, le prospettive sul Medio Oriente cambiarono e l’8 Maggio 2018 fece uscire gli Stati Uniti dal trattato. Il 5 Novembre furono ripristinate le sanzioni economiche contro l’Iran che presero di mira petrolio, banche, migliaia di individui, tra i quali la Guida Suprema Ali Khamenei e il ministro degli Esteri Javad Zarif, e molto altro ancora.

Per via delle sanzioni secondarie extraterritoriali, qualsiasi banca, azienda o entità che avesse continuato a commerciare con l’Iran sarebbe stata a sua volta sanzionata ed esclusa dal mercato americano. A detta del presidente Trump, queste erano “le sanzioni più dure mai imposte ad un Paese”. Gli Stati Uniti decisero inoltre di schierarsi apertamente con Israele e l’Arabia Saudita, paesi fortemente ostili all’Iran.

Con la vittoria di Biden ha avuto inizio un riallineamento della politica americana in Medio Oriente. Meno ossessionato dal pericolo iraniano del suo predecessore, il nuovo presidente esprimeva l’intenzione di modificare i rapporti con l’Iran e riprendere in qualche modo il dialogo tra le due nazioni. Questo riequilibrio politico, al quale andava aggiunta la possibilità del raggiungimento di un nuovo trattato, avrebbe certamente contribuito a migliorare il clima nella regione.

Questo era tanto vero che con le sorti della campagna elettorale ancora incerte, il presidente iraniano Rohani, intorno alla fine della prima settimana di Novembre, espresse l’auspicio che con la nuova amministrazione gli Stati Uniti potessero rientrare nell’accordo sul nucleare e correggere le decisioni del passato. Nondimeno ha voluto sottolineare che il regime non sarebbe stato aperto ad un negoziato sul programma balistico nazionale, né disposto a mettere in discussione la sua politica regionale. La Guida Suprema mise invece l’accento sulle debolezze e le ingiustizie mostrate dagli Stati Uniti. Un inizio di dialogo era dunque possibile.

L’Iran si attendeva un alleggerimento delle pressioni economiche e delle sanzioni imposte. La speranza del regime era quella di veder mutare le difficili condizioni nelle quali versava il paese e consentirgli di migliorare la situazione interna grazie alla ripresa dei rapporti economici con il resto del mondo. Nella stessa direzione andava la richiesta del ministro degli Esteri Zarif di porre termine alla guerra economica e alla politica di massima pressione esercitata sul Paese. Esprimeva pure lui la speranza di una ripresa delle trattative sulla questione nucleare.

Abituati alla precedente amministrazione, ai loro occhi il nuovo presidente americano appariva di carattere stabile ed equilibrato, ben distante dagli atteggiamenti imprevedibili di colui che lo aveva preceduto. Biden non veniva considerato un ideologo, quanto piuttosto un uomo di centro rodato da anni di dialogo e di ricerca del compromesso. Le sue precedenti esperienze come vice di Obama e presidente del Comitato Affari Esteri del Senato facevano pensare che sarebbe stato il meglio piazzato per raccogliere questa sfida.

Benché soddisfatti dai risultati delle elezioni americane, a Teheran permaneva un certo grado di diffidenza. In più di un ambiente nasceva comunque la speranza di una rimozione delle sanzioni. Verso la fine di Novembre, con un Trump che continuava a contestare gli esiti del voto e rifiutava di ammettere la disfatta, il presidente Biden annunciava di voler cercare il compromesso e la distensione con l’Iran e far rientrare gli Stati Uniti nell’ambito dell’accordo sul nucleare. Senza sorpresa, Israele e Arabia Saudita esprimevano la loro contrarietà a questo disgelo.

Anthony Blinken, in precedenza altro elemento importante della squadra di Obama e favorevole ad un accordo, veniva nominato Segretario di Stato. Poco dopo, Lloyd Austin, graduato a West Point nel 1975 e oggi generale a 4 stelle, diveniva il nuovo Segretario alla Difesa. Era il primo uomo di colore a raggiungere questa posizione. Considerato un soldato prudente, era stato scelto dal presidente Obama quale comandante del contingente americano in Medio Oriente e aveva poi presidiato al ritiro delle truppe americane dall’Iraq. Grazie ad un’ulteriore serie di recenti nomine il nuovo governo si mostrava aperto a tutte le diversità.

La nuova presidenza BidenA mezzogiorno del 20 Gennaio di quest’anno, il presidente Biden prestava giuramento sulla Bibbia di famiglia ed entrava alla Casa Bianca. Una volta insediatosi, egli auspicò un rapporto più solido e duraturo con l’Iran e a metà Febbraio espresse la volontà di alleggerire le sanzioni contro Teheran.

A Teheran erano indubbiamente soddisfatti della sconfitta di Trump: aveva cercato di rovesciare il regime ed ora a non esserci più era lui stesso. Il regime invece è rimasto in sella ed è solido. Il presidente Rohani rinnovò il suo augurio di vedere gli Stati Uniti rientrare nell’accordo e rimuovere le sanzioni. Se gli americani si fossero mostrati disponibili a fare un passo avanti, lo stesso avrebbe fatto l’Iran.

In linea con la tendenza di giocare al rialzo in previsione di un negoziato, il ministro degli Esteri Zarif replicava da Teheran che gli iraniani erano disposti a sedersi al tavolo con gli Stati Uniti, a condizione però che tutte le sanzioni accumulate sotto Trump a seguito della sua uscita dal trattato fossero rimosse senza condizioni. Ribadiva che non vi sarebbe stato negoziato sul programma balistico del Paese, né riguardo il suo agire politico nella regione.

A farla breve, il regime si mostrava disposto a tornare alle condizioni precedenti al giorno dell’uscita dal trattato, purché gli Stati Uniti facessero altrettanto. In questo caso l’Iran sarebbe pronto a fare marcia indietro sulle sue violazioni del trattato e a mantenere di nuovo gli impegni sottoscritti al momento della firma.

Nel suo intervento al Dipartimento di Stato, il presidente Biden aveva ricordato l’importanza del ruolo della diplomazia e del multilateralismo, così come aveva sottolineato che la sua amministrazione sarebbe tornata ad agire in base a quei valori che caratterizzano l’Occidente. Di fronte alle condizioni poste dall’Iran è ovvio che gli Stati Uniti si troveranno costretti a pretendere di più. Sarebbe senza dubbio un errore se il regime di Teheran interpretasse questa rinnovata disponibilità come un segno di debolezza. Data la situazione interna e con le presidenziali attese per Giugno, l’Iran in questo momento non si trova certo in una posizione di forza.

Il dialogo si presenterà lungo e difficile: Teheran si attende qualche gesto concreto dagli americani e questi ultimi altrettanto da parte iraniana. È necessario rendersi conto che per gli iraniani la questione nucleare è di forte valenza simbolica e che vi è nel paese un diffuso consenso al riguardo. L’Iran si considera da anni sotto assedio e farà il possibile per tenere duro. La popolazione è però esausta e spera di vedere presto dei risultati.

I gruppi conservatori tengono a sottolineare come l’uscita degli americani dal trattato e l’imposizione di nuove sanzioni da parte loro, accompagnate da ulteriori misure punitive, non abbiano intaccato la volontà di resistere né raggiunto lo scopo di mettere l’Iran in ginocchio e fargli cambiare direzione politica. Il risultato è che Teheran si trova oggi a possedere una riserva di uranio arricchito pari a circa 15 volte quella consentita dall’accordo. In aggiunta aveva poi deciso di portare l’arricchimento dell’uranio dal 3,29% consentito al 20%.

In attesa di una ripresa dei negoziati, gli iraniani hanno appena celebrato l’Anno nuovo sapendo bene che oltre alle sanzioni, a danneggiare l’economia vi sono anche una diffusa corruzione ed una cattiva gestione.

Iniziano gli incontri a Vienna: Alla chiusura della prima giornata, con la delegazione europea che mediava tra Stati Uniti ed Iran facendo la spola tra un albergo e l’altro, Mosca annunciava che tutto sommato la direzione presa nelle discussioni era positiva.

Credo poter dire che gli Stati Uniti si rendano conto che con l’Iran è tempo di fare un passo indietro e che gli iraniani stessi dovrebbero capire la necessità di una maggiore sintonia con gli americani. In un contesto globale di confronto tra Washington e Pechino, è da vedere quale accordo si riuscirà ad ottenere e quali saranno i meccanismi di ispezione: si tratta di trovare la formula giusta per riprendere il dialogo, poiché è la Guida Suprema stessa a voler rimanere nell’accordo, non essendo nella logica del regime dotarsi dell’arma atomica.

Teheran – va ricordato – aveva sottoscritto l’accordo rispettandolo alla lettera. È stata l’improvvisa decisione di Trump di uscirne ad incrinare la fiducia degli iraniani nell’Occidente e soprattutto negli Stati Uniti. L’Europa non mosse un dito. Di fronte a ciò, gli iraniani avevano avvertito che ne sarebbero gradualmente usciti anche loro. Come ragionamento non fa una piega.

Non è sufficiente accumulare sanzioni nella speranza di vedere l’Iran piegarsi, piuttosto sarebbe necessario trovare una strategia di più vasta portata e maggior respiro. Riguardo la componente missilistica e l’agire dell’Iran nella regione, si tratta di questioni strategiche da affrontare in modo diverso. È bene che le due parti lo imparino: a voler troppo si rischia di non ottenere nulla. Ciò che conta è che adesso gli Stati Uniti si siano mostrati favorevoli ad una ripresa del dialogo e che il Grand Ayatollah Khamenei abbia accettato la prospettiva di un accordo e vi sia favorevole.

In questa partita è ovvio che tra i due Paesi operi anche una logica di politica interna: nel portare avanti le trattative con l’Iran, Biden sa bene di scontrarsi con l’ostilità di molti repubblicani, così come anche di alcuni esponenti del suo stesso partito. Questo è vero soprattutto in Senato. Allo stesso tempo, in Iran è in corso uno scontro tra moderati, conservatori e radicali con in palio il risultato delle prossime elezioni presidenziali. Al momento i primi non hanno il vento in poppa ed i sondaggi continuano a favorire i gruppi conservatori, contrari al trattato che li vedrebbe indeboliti a vantaggio dei loro rivali.

Un’azione di sabotaggio a Natanz?Nella mattinata del 11 Aprile, giunge improvvisa la notizia di un incidente nella centrale nucleare di Natanz. L’Agenzia atomica iraniana ha dichiarato che l’episodio è stato un atto di “terrorismo antinucleare” e ha suggerito che dietro l’operazione vi fossero i servizi segreti israeliani. Quest’incidente, avvenuto mentre le trattative erano in corso a Vienna, non potrà che rendere più ardui gli sforzi diplomatici.

Ad essere colpito è stato l’impianto elettrico, cosa che ha danneggiato numerose centrifughe di vecchia generazione. L’Iran ha subito annunciato che sarebbero state sostituite al più presto con modelli di nuova generazione, dieci volte più veloci e capaci di arricchire una maggiore quantità di uranio.

Per la Germania quest’azione è stata un fatto negativo, mentre l’Europa si è augurata che l’incidente non sia causa di un’interruzione del dialogo in corso. La stessa Russia sottolinea come l’episodio non debba rompere i negoziati. Da Teheran, il ministro degli Esteri Zarif ha affermato che questa azione non offrirà nessun vantaggio agli Stati Uniti nella ripresa delle trattative. Ha poi aggiunto che nel commettere questa azione di sabotaggio Israele ha fatto una pessima scommessa. A nessuno sfugge che facendo entrare in funzione più centrifughe e di tipo più moderno, l’Iran sarà più forte nel trattare.

Mentre i firmatari dell’accordo sul nucleare hanno ripreso a riunirsi in cerca di una mediazione, le tensioni tra Israele e Iran sono ai massimi. Per il premier Netanyahu il dialogo con l’Iran, che si fa beffe del mondo, non andrebbe incoraggiato. Per lui l’idea che Teheran possa avere il diritto di procedere nel ciclo dell’uranio è del tutto inaccettabile. Non è certamente il caso di tornare all’accordo del 2015 in quanto è necessario qualcosa di più ampio che includa il programma balistico iraniano e le sue azioni nella regione.

Della stessa opinione è lo Stato maggiore dell’esercito. Di avviso contrario i vertici del Mossad: ai loro occhi l’Iran dopo tutto non è il male assoluto. Bisognerebbe rendersi conto che indipendentemente da ciò che si voglia fare, non vi potrà essere marcia indietro sui progressi dell’Iran in campo nucleare da quando l’ex-presidente Trump è uscito dall’accordo. Le conoscenze acquisite non si possono cancellare e Israele non può certo andare in giro eliminando ogni scienziato iraniano. Questa contrarietà all’accordo non ha dunque senso, in quanto l’Iran ha ormai acquisito una conoscenza tecnica in campo nucleare che non è reversibile. Per altro ha già incrementato le sue riserve di uranio e rafforzato le proprie capacità nucleari.

Come di sua abitudine il governo israeliano tace, ma secondo i media locali sarebbe stato il Mossad ad organizzare l’attentato per rallentare lo sviluppo nucleare iraniano. Il ministro della Difesa Benny Gantz ha condannato le fughe di notizie sulla stampa, puntando il dito contro ambienti ufficiali. Scopo di Israele è di lanciare un messaggio a Washington e fare pressione sull’Iran e l’Europa. Gerusalemme sta cercando di guadagnare tempo, ma la sua politica di massima pressione può considerarsi fallita: l’Iran sarà pure in ginocchio economicamente, ma finora non ha arretrato di un passo.

Lo Stato Ebraico ed il regime di Teheran da tempo si combattono a distanza. Sia sufficiente ricordare il recente attacco nel Golfo Persico contro una nave iraniana ammesso da Israele e la precedente azione condotta dagli iraniani contro una nave israeliana al largo del Golfo dell’Oman.

In alcuni ambienti ci si domanda se in questa faccenda possa avere influito il processo in corso al premier Netanyahu. Difficile dirlo. Quel che è certo è che ogni azione svolta contro l’Iran è ben vista dalla coalizione che lo sostiene e contribuisce a rinsaldarla. Con gli Stati Uniti che dichiarano di non essere implicati in questa faccenda, non resta che supporre che Israele abbia agito per conto proprio. Pur sapendo di non fare un piacere a Netanyahu l’amministrazione Biden ha preso le distanze dall’incidente, mostrando così di voler rilanciare il negoziato e non piegarsi alla volontà di Israele.

L’Iran accusa Israele e promette vendetta. Quest’episodio renderà più difficili i negoziati di Vienna, già complicati dall’atteggiamento iraniano che pretendeva la rimozione di tutte le sanzioni per non continuare a violare l’accordo. Ad uscire dal trattato – dicono – non sono stati loro, ma gli americani. In risposta l’Iran, che non poteva detenere più di 350 kg di uranio arricchito al 3,25%, oggi ne ha più di 5 tonnellate. Di recente aveva già portato il tasso di arricchimento al 20% e a seguito dell’attentato ha annunciato che lo innalzerà al 60%: si tratta di un passo importante che non può essere accettato, ma servirà a fare pressione sull’Occidente.

Teheran ha colto l’occasione per alzare la posta, dato che ha bisogno di concessioni in vista delle prossime elezioni: in risposta a quello che definisce il “terrorismo israeliano”, il presidente Rohani ribadisce l’accelerazione del programma nucleare e l’incremento della percentuale di arricchimento dell’uranio dal 20% al 60%. Verranno inoltre impiegate nella centrale di Natanz altre 1000 centrifughe di nuova generazione.

La risposta del presidente Rohani è il risultato di una sua posizione interna certamente non facile, da spiegarsi con esigenze di tipo domestico e per ragioni internazionali. Di fronte a questo attentato egli si trova costretto a subire le pressioni dei gruppi conservatori del parlamento: deve tener conto delle prossime presidenziali che vedono la sua parte politica in netto svantaggio.

Si deve perciò mostrare forte e deciso e, soprattutto, non cedere. L’arricchimento dell’uranio al 60% è un passo importante che non può essere accettato da nessuno dei firmatari dell’accordo. Il Presidente lo sa bene, ma si tratta di un modo per fare pressione sull’Occidente, in particolar modo sugli Stati Uniti, per spingerli a quel primo passo che consiste nel rimuovere parte di quelle 1500 sanzioni che avevano fatto piovere sull’Iran.

Il presidente Biden, malgrado le provocazioni, si dice pronto a continuare le trattative. L’Unione Europea, deplorando questo grave sviluppo, si limita ad esprimere le sue preoccupazioni. Per capire esattamente cosa potrebbe accadere bisognerebbe essere a conoscenza dell’entità dei danni subiti a Natanz e di cosa gli iraniani saranno in grado di rimpiazzare in tempi brevi. Con queste nuove centrifughe l’uranio potrà essere arricchito meglio e più velocemente. Per Stati Uniti ed Israele questo attentato ritarderà di vari mesi il programma nucleare iraniano, per Teheran è solo questione di pochi giorni per rimediare al danno subito.

Alcune considerazioni finali:   Con 21 delle 31 regioni in chiusura totale per via del Coronavirus e le grandi difficoltà dovute ad un’economia in dissesto, l’Iran è un paese tutto sommato fragile che tuttavia spinge per ottenere il massimo in questa ripresa delle trattative. I suoi rappresentanti sono eccellenti negoziatori, capaci anche di giocare su più tavoli come evidenziato dal recente trattato venticinquennale con la Cina: entrando nella sfera di influenza cinese gli iraniani diventano una pedina nella contesa tra Washington e Pechino e, anche se indeboliti, possono quasi dirsi in posizione di forza.

I tempi per trovare un’intesa difficilmente potranno essere brevi, poiché vi è di mezzo la sopravvivenza stessa del regime. La Guida Suprema ha lasciato intendere di non essere pronta a sottoscrivere un accordo a tutti i costi: più di tanto non vuole esporsi e sarà Rohani a doversela vedere. Quest’ultimo non ha troppe alternative di fronte a sé e a questo punto non può mostrarsi determinato e dare una risposta forte. Ha annunciato che adesso l’Iran è in grado di produrre ogni ora 9 grammi di uranio arricchito al 60%.

In passato aveva sottolineato come la ricerca nucleare fosse destinata ad usi civili e non avesse finalità militari. Ha di recente aggiunto che “la ricerca dell’arma nucleare presenta una minaccia per la comunità e non è qualcosa che fa l’Iran”. Recentemente ha indicato che se si dovesse raggiungere un accordo il tasso di arricchimento potrebbe scendere, lasciando però intendere che non sarà possibile negoziare in eterno: vi sono delle scadenze dettate dalle difficoltà interne. Per i conservatori ed i radicali, quando i moderati sono al potere non vi è che disordine e perdita di influenza. Ritengono il presidente un ingenuo perché troppo disposto a fidarsi degli Stati Uniti. La risposta finale verrà dalle elezioni di Giugno.

Quest’incidente deve anche far riflettere. Se effettivamente vi è dietro la mano di Israele, ciò sottolinea la debolezza di Teheran che non si mostra in grado di proteggere le sue installazioni più importanti. Si tratta per il regime di un problema di credibilità. Resta la questione dello Stato Ebraico. Finora ha mostrato di non avere nessuna intenzione di assistere a questi negoziati: quello che conta è tagliare le gambe all’Iran.

La ripresa dei negoziati comporta delle costrizioni che investono tutti i protagonisti. L’Iran – come si è visto – l’Europa, che deve mostrarsi in grado di fare qualcosa e anche Biden, che non avrà vita facile: dovrà far meglio di Trump e per riuscirci si è già reso disponibile a rimuovere le sanzioni legate al trattato. Si trova però ad avere le mani legate su tutte le altre.

Sia Rohani che Biden devono salvare la faccia e trovare il modo di ottenere le migliori condizioni possibili. Si tratta per loro di una partita senza grandi margini di manovra. Resta comunque importante che tra le parti vi sia una volontà di riprendere il dialogo, così come credo importante rendersi conto che il modo in cui evolverà l’Iran sarà determinante per il futuro del Medio Oriente.

Per gli Stati Uniti ed i firmatari del trattato il problema resta la nuclearizzazione dell’Iran. Il circolo delle nazioni nucleari è ristretto e alla fine un Iran nucleare non piace a nessuno. Non può dirsi una coincidenza che i firmatari del trattato, Iran escluso, siano le cinque potenze legalmente nucleari dal punto di vista militare e questo per aver fatto esplodere la loro bomba anteriormente al 1 Gennaio 1967.

Questi cinque Paesi, che sono anche membri permanenti con diritto di veto del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, costringono per sempre le altre 195 nazioni del mondo a rinunciare all’arma nucleare. Loro invece non disarmano come previsto dal Trattato di Non Proliferazione Nucleare. È una situazione che grida vendetta e va affrontata: se ciò non dovesse avvenire, il rischio è quello di un estendersi della proliferazione.

Vorrei lasciare al lettore questo messaggio finale: benché sia regola diffusa che un buon negoziatore all’ultimo alza sempre la posta, la buona diplomazia non getta mai la spugna e le migliori soluzioni sono quelle che si reggono da sole perché basate sul consenso delle parti. Era opinione di Tarchiani che in diplomazia per avere bisogna saper dare: la diplomazia sottintende sempre il compromesso.

Concentrarsi unicamente sull’Iran e la sua questione nucleare non consentirà mai di giungere a qualcosa di definitivo: in politica estera tutto è collegato e non vi può essere un avvio di equilibrio in un’area senza includervi quella limitrofa. È evidente come fino a che non si arriverà ad un accordo comprensivo, non potrà esservi in Medio Oriente un Paese tranquillo. Se si vuole portare a soluzione il problema iraniano bisognerà allo stesso tempo affrontare un piano di risistemazione della regione. Ne avevo parlato più in dettaglio in uno scritto precedente.

Edoardo Almagià

 

NotaIn vista dell’inizio di queste trattative, sarebbe il caso di menzionare che Iran e Arabia Saudita si stanno incontrando in sordina a Baghdad. Da anni non avevano rapporti diplomatici ed ufficialmente i colloqui in corso hanno come oggetto la questione yemenita.

Questo conflitto, sorto all’epoca della Primavera araba, sta proiettando da tempo un’ombra negativa sulla monarchia saudita. Le distruzioni in quel paese sono state molto vaste, mentre enormi continuano ad essere le sofferenze per la popolazione civile. A detta degli esperti, si tratta della più grave crisi umanitaria che il mondo si trova oggi ad affrontare. I ribelli Houthi, sostenuti da Teheran, stanno inoltre dando filo da torcere alla coalizione a guida saudita. Sovente i loro missili ne colpiscono il territorio.

Spiegare questo cambiamento di rotta non è difficile: anche in questo caso si tratta di una delle conseguenze del cambio della guardia alla Casa Bianca. Appena insediatosi, il presidente Biden ha subito deciso di riequilibrare la politica americana in Medio Oriente e tendere una mano all’Iran. Se da un lato non sono stati toccati gli accordi di Abramo, dall’altro Washington si è mostrata meno disponibile verso Israele e la monarchia saudita.

Questo cambiamento ha fatto sì che si arrivasse ad una ripresa delle trattative a Vienna e Riyadh ha presto capito l’antifona. Anche per l’Iran le cose sono cambiate ed in attesa della tornata elettorale di Giugno i moderati stanno facendo il possibile per non perdere consenso. Il presidente Rohani si sta mostrando meno ostile verso gli Stati Uniti e il loro alleato saudita, nella speranza che un miglioramento del clima complessivo possa rendere più facile la strada per un nuovo accordo e aiutare il suo schieramento politico in vista delle prossime elezioni.

Anche il presidente Biden ha i suoi problemi di natura interna. In questa ripresa delle trattative, in gioco non vi sono dunque esclusivamente motivi di politica estera ma anche questioni di carattere domestico. La partita è cruciale, in quanto abbraccia il domani dell’area mediorientale. Questo rende inevitabile uscire dagli schemi del passato ed abbracciare una visione più ampia del problema.

Sempre partendo da questa premessa, è giunta da poco la notizia che il 24 Maggio in Siria si terranno le elezioni presidenziali. Assad così ha deciso ed il candidato sarà lui. Con questo passo il presidente siriano mette in dubbio la risoluzione del Consiglio di Sicurezza, approvata all’unanimità il 18 Dicembre 2015 e questo mentre a Ginevra sono in corso delle riunioni per redigere una nuova costituzione.

Questo gesto è una sfida al mondo e alla Nazioni Unite. Il presidente Assad è un uomo spietato e privo di scrupoli, al quale poco importa il benessere del suo popolo e l’opinione della comunità internazionale: per il suo cinismo e la feroce determinazione di aggrapparsi al potere questa decisione non deve stupire, anche perché si sente coperto dall’appoggio di Mosca e di Teheran. Una simile scelta potrebbe dare un colpo grave al rinnovo dei negoziati.

L’evoluzione delle cose in Siria si rifletterà inevitabilmente anche sul futuro del Libano. Per rendersene conto basta recarsi alla frontiera tra questi due paesi e vedere cosa vi accade. E’ dunque inevitabile non limitarsi ad affrontare unicamente il problema iraniano, ma allargare all’intera regione le trattative in corso a Vienna. Chi si cura di queste cose dovrebbe rendersi conto che anche in diplomazia l’avvenire appartiene a chi ha più fantasia.

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