Molti possono essere i fattori che hanno incoraggiato il tentativo – e il suo successo – di un gruppuscolo  criminal-fascista di raccogliere in piazza un numero di persone incomparabilmente superiore alle proprie dimensioni quantitative, e alla stessa area di ascolto che esso abbia mai potuto sperare di raggiungere. E sarebbe molto allarmante se si dovesse giungere alla conclusione che, tra questi, un ruolo significativo abbiano avuto le conseguenza psicologiche lasciate nell’opinione pubblica  del forte astensionismo manifestatosi nella tornata elettorale di due settimane fa: circa dieci punti in più di quella precedente, già assai bassa e inserita in un trend sistematicamente discendente.

Assai probabile è comunque che a dare la sensazione di una sfiducia generalizzata degli Italiani nel metodo elettorale siano stati anche i troppi, e spesso improvvisati, commentatori ed opinionisti alle cui interpretazioni pseudo-politiche – in realtà molto spesso “qualunquistiche” – dell’assenteismo elettorale i media, soprattutto le TV, e i social hanno fornito un’audience pericolosamente larga. Così come hanno consentito di affiggere etichette assai approssimative sui fenomeni di malcontento diffuso che, alla fine, sono confluiti nella penosa confusione delle lingue che si è prodotta in Piazza del Popolo, e che ha consentito a una squadraccia rozza e incolta di appropriarsi della manifestazione.

Definire genericamente no-vax quella folla, equivale quasi a nobilitarla, a conferirle una dignità che non merita. Ed essa stessa, se interrogata non per fare spettacolo, ma con l’obiettivo di capire, definirebbe probabilmente se stessa soprattutto come ostile al “green pass”. Questa ostilità non vale uno straccio delle pur poco plausibili motivazioni del rifiuto del vaccino, legato a luoghi comuni relativi alla medicina e alla salute. Al contrario, nasce da un vizio antico e tipicamente italiano; nasce dalla scarsa fiducia nelle istituzioni, se non addirittura dal sospetto relativamente alle loro intenzioni, cioè da residui psicologici e culturali che risalgono ai secoli del sonnolento ed immobilista governo straniero negli staterelli in cui la Penisola era frammentata. Sfiducia e sospetto che, se per un momento hanno dato visibilità e risonanza all’ azione squadristica di pochi teppisti, rischiano nel medio periodo di ritorcersi contro le misure anti-pandemia di un Premier che si presenta invece – o almeno tenta di farlo – come portatore di una volontà di insolita efficacia nella gestione degli affari interni e di un rapporto di tipo nuovo con gli altri stati europei.

Ma ciò non spiega tutto. Perché al residuo psicologico dell’Italia pre-risorgimentale si unisce – e lo si vede nel parzialmente riuscito sciopero dei portuali di Trieste, e i minor misura di quelli di Genova – un sentimento di origine tardo-novecentesca, una tentazione alla non-collaborazione sociale, un atteggiamento di ostentata noncuranza per l’interesse nazionale.  Un problema che dovremo – a quanto pare – affrontare nella prossima settimana, dopo l’entrata in vigore di nuove indispensabili restrizioni anti-Covid. E che sarebbe veramente triste dover considerare parte significativa di ciò che resta delle grandi e nobili aspirazioni del pensiero socialista, e della lotta delle classi meno fortunate per migliorare, grazie allo Stato Sociale, il proprio destino.

I contrastanti sentimenti nati dalle violenze di due sabati fa hanno dominato tutta la settimana, ed hanno spento, o almeno fortemente oscurato, il dibattito che avrebbe dovuto aver luogo per chiarire i termini del voto di oggi e di domani, secondo turno per l’elezione dei Sindaci di alcune importanti città. Ci si può perciò chiedere quale impatto ciò avrà non solo sulle scelte di chi andrà a votare, ma anche sull’affluenza alle urne, che spesso al secondo turno è comunque più bassa che al primo. Perché – se ci dovesse essere un nuovo significativo episodio di assenteismo elettorale – non ci sarebbe da rallegrarsene.

Giuseppe Sacco

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