Concludiamo la pubblicazione dell’articolo con questa terza parte che segue la prima ( CLICCA QUI ) e la seconda ( CLICCA QUI ).
Puntare alla cittadinanza attiva e partecipata
Sono convinto che svolgere l’attività di educatore in servizi territoriali negli e per gli enti locali, quali quelli che svolgono attività di supporto nei servizi sociali di assistenza e protezione delle fasce deboli, quelli che intervengono in aiuto di soggetti in condizione di povertà o con reddito insufficiente, di soggetti che per deficienze fisiche e/o psichiche non sono in grado di provvedere autonomamente alle proprie necessità, di soggetti per i quali, a causa di provvedimenti dell’autorità giudiziaria, si rendono necessari interventi assistenziali e se del caso riabilitativi, di minori che in particolare situazione di disagio familiare necessitano di interventi di sostegno e di supplenza oltre a quanto riesce ad attivare l’istituzione scolastica durante l’orario di frequenza, richieda l’intervento delle istituzioni pubbliche, della cooperazione sociale, delle associazioni e degli enti di promozione sociale, del mondo, tanto ricco e variegato di iniziative, del volontariato, con obiettivi precisi, chiari e condivisi. Anche in questo caso appare evidente l’urgenza di predisporre reti integrate ed integrabili che in base a quegli obiettivi comuni e sinergici possano attivare piattaforme di interventi integrati ed interagenti.
Sono convinto che la cittadinanza attiva sia strumento per includere e partecipare. La città, simbolicamente intesa come luogo in cui si vive, è essenzialmente luogo educativo, sia che educhi sia che diseduchi, ed allora per rifuggire ed evitare il rischio, sempre più pressante, del diseducare, deve riappropriarsi in sede educante di propri spazi di crescita e di promozione sociale e quindi valoriale. L’identità di un contesto sociale che sia anche educante, secondo l’esigenza dell’accoglienza, consiste nella capacità di puntare alla partecipazione (c’è maestro Giorgio Gaber con le sue canzoni, i suoi messaggi, il suo essere aedo, giullare), alla condivisione, a far rivivere uno spirito comunionistico, a rendere più persone possibile consapevoli che si possa ri-pensare la comunità in termini non astratti. Non in termini intellettualistici, ma esistenziali, direi politici, nel senso più alto che si possa dare al termine (polis=città). Politica come arte di coniugare insieme tutte le caratteristiche, necessità, opportunità del vivere nel contesto urbano. Quando noi usiamo, in senso figurato il termine urbano ne sottolineiamo la componente di persona corretta, cortese, gentile. Sarebbe bello che queste fossero le caratteristiche di chi abita la città, purtroppo così non è.
Tra globalizzazione ed identità: “I vestiti nuovi dell’Imperatore” di Andersen
Nella globalizzazione dei comportamenti valgono di più le piazze con il loro vociare, gridare, con le loro scostumatezze e sì perché una volta persa la componente urbana del vivere insieme si è drammaticamente scostumati. In una possibile interpretazione della notissima favola de “I Vestiti nuovi dell’imperatore” la nudità dell’imperatore è scoperta e gridata da un bambino, chissà se questo bambino sia anche in grado di individuare chi vive da scostumato, cioè da uomo che ha perso il costume dell’essere urbano, corretto, cortese, gentile.
Sono convinto che vadano bene tutte le iniziative tese a far crescere il valore di comunità, di responsabile partecipazione e tutto questo sarebbe un bel costume con cui caratterizzare l’urbanità e quindi il misurato e sobrio vivere la città. L’educatore potrebbe essere inteso come un nuovo sarto capace di cucire e ricucire abiti su misura della città. Quando ci fanno sorridere i personaggi cittadini di Goldoni e Molière cosi cortesi, incipriati, galanti da bourgeois gentilhommes essi possono essere anche simpatici, graziosi, ma nulla di più, sono nient’altro che delle maschere, dei figuranti, dei teatranti. A noi interessano cittadini veri, cittadini che sappiano essere efficaci, sobri, sereni ed operosi, cioè cittadini consapevoli delle loro responsabilità, attenti a quanto avviene nel circostante per coglierne durezze e asperità, ma anche disponibilità e aperture.
Sono convinto che molti cittadini, cioè le persone che abitano in un dato agglomerato urbano, attente alle richieste a volte inespresse per pudore, per insensibilità, per incapacità a chiedere aiuto, sentono con forza nelle loro carni, questa ansia, questa urgenza di educare alla coesistenza, all’accoglienza. Utili ed indispensabili quindi tutte le iniziative che sono volte a far crescere il tessuto connettivo all’interno delle nostre città, financo nelle nostre più disperse e sparute borgate, per la promozione e l’implementazione di spazi valoriali che puntino alla solidarietà, alla coesione ed all’inclusione. Pertanto ben vengano sia nel pubblico sia nel privato sociale tutte quelle iniziative che puntino ad una integrale cultura della coscienza comunionistica, che è identificabile con quella del bene comune. Tale modalità di essere non ci può esimere dal coniugare insieme le necessità e le urgenze degli ultimi, ed anche quelle dei penultimi, cioè il dovere, anzi il diritto come abbiamo scritto poco sopra, di tutti per superare gli ostacoli frapposti alla piena realizzazione del cammino esistenziale di ciascuno, cioè di tutti, nessuno escluso.
Sono convinto che gli SOS che molti lanciano non ci possano lasciare indifferenti, anzi non ci lasciano certo indifferenti, ma dobbiamo fare molto di più, dobbiamo superare la fase emozionale per razionalizzare sensazioni e sentimenti ed attrezzarci con particolari sensori per cogliere i tanti segnali di aiuto che in forma implicita, criptica, da decodificare vengono lanciati da tanti, da molti, ormai da troppi. Mi sembra che potenziare le capacità di comunicazione, di interazione, di relazione tra amministratori, operatori, volontari e terzo settore sia una delle tante modalità possibili per migliorare la qualità della vita nelle nostre comunità. Buona norma educativa, anzi una buona prassi, è quella di aiutare gli altri e di aiutarci a non dissipare il tempo, ricordando che i cattivi consiglieri e gli imbonitori “hanno sempre prevalso -ci ricordava Giuseppe Vico- su coloro i quali hanno ritenuto di soffermarsi alle soglie dell’invadenza, riflettendo sull’attenzione all’altro e sulla possibilità di condividerne problemi e progetti”. Sta solo a noi inseguire la follia dei secondi e rifuggire la stupida perniciosità dei primi, che è come dire che quando si è convinti di lavorare bene per il bene di tutti, si deve trovare il coraggio di dire e di ridire il proprio pensiero, anche se in modo apparentemente non opportuno. Solo così possiamo essere certi, al declinare delle nostre possibilità ed abilità, di aver combattuto una buona battaglia.
Sono convinto di quanto ci sia da fare oggi, come ieri, anzi come sempre, per educare. Facilmente tanti sono portati ad essere laudatores temporis acti, io cerco di non lasciarmi sedurre dalla Circe ammaliante ed ammorbante della facile seduzione del passato, cerco, per quel che posso e per quel che valgo, di sforzarmi di guardare verso il futuro il più ottimisticamente possibile, anche se so bene che oggi questo ottimismo costa a sentirselo dentro, ad esserne consapevoli e a manifestarlo all’esterno. Ma il principio speranza, come mi capita spesso di dire, è il principio fondativo dell’educare. ( Segue )
Aperti ed affascinati dal nuovo: la IX Sinfonia di A. Dvorak
Sono covinto che l’ansia del futuro, del nuovo che avanza si centri sulla speranza fondata sulla certezza che il progresso deve fare i conti con il presente e con il passato. Sono curioso e non riesco ad essere disattento e scarsamente interessato ai cambiamenti, all’innovazione e a non vedere questa crisi di cambiamento che stiamo vivendo come occasione di progresso, ogni qualvolta trova la sua ragione nel coniugare dialetticamente passato e presente. Ancora un rimando alla musica: sono affascinato dalla Nona Sinfonia “Dal nuovo mondo” di Antonin Dvorak, compositore cecoslovacco dalla formazione culturale robustamente classica ed europea che, scrivendo questa sinfonia durante un soggiorno negli Stati uniti, trova ispirazione e quindi desiderio di inserirvi una ricercata, anche se inevitabile, contaminazione con la musica autoctona come gli spirituals afroamericani e la musica dei nativi americani. Trovo emblematicamente forte, nella sua straordinaria semplicità il titolo di questa sinfonia. Il “dal” significa che quella musica con le sue contaminazioni parte “dal nuovo mondo” non per una sorta di colonizzazione di ritorno, ma per sottolineare la formazione fortemente europea di Dvorak che, senza rinnegare la propria identità accetta la contaminazione, una sorta di meticciato dello spirito, senza per questo abbandonare o lasciare sotto traccia la propria cultura ed i propri maestri. Anzi, sentendola ed apprezzandola, si ribadisce, vivendola, la speranza che dal nuovo mondo si possa continuare a tessere rapporti con l’altra sponda dell’Atlantico e viceversa. Con questa volontà di condivisione reciproca e di interconnesione fortemente voluta ed ambita, la speranza diventa un autentico “principio superiore” (titolo di un classico film del 1959 della cinematografia cecoslovacca, per il quale non mi stanco mai di cercare nuovi spettatori che possano educarsi alla pregnante risorsa della democrazia e quindi della coscienza civile e dell’educazione alla cittadinanza), di cui non possiamo fare a meno per educare, senza aggettivazione alcuna, in modo compiuto.
Delirio di potenza: Il Costruttore Solnes di Ibsen
La partecipazione, l’impegno, l’autonomia, l’autodeterminazione, il rispetto di sé, degli altri e delle cose, sono educazione alla libertà, intesa nel proprio senso forte di libertà per… Se fosse libertà da…. non sarebbe autentica libertà, non sarebbe libertà, sarebbe volontarismo, individualismo, soggettivismo e forse correrebbe anche il rischio del riduzionismo sia libertario sia anarchico.
Quanti errori, quante sofferenze per aver declinato e continuare a declinare il pensiero di Protagora: l’uomo è la misura di tutte le cose. In questa incessante declinazione, frastornata da illuminismi, idealismi e positivismi, il relativismo sembrerebbe essere l’assassino dell’educazione, dell’educare ai valori in quanto i valori sono fortemente legati all’intus legere più che all’apprendimento per competenze. Ritenere che insegnare tutto a tutti, nel più breve tempo possibile e con i migliori risultati sta a significare forse che tutto si risolve nel metodo, nella performance, nel puntare sulle competenze. Quando valgono solo le competenze, le performances rischiamo di diventare emuli del Costruttore Solnes di Ibsen: bravissimo a costruire Cattedrali (case per Dio), per poi a costruire ville (case per gli uomini) ed alla fine castelli in aria (tombe per chi perde il senso del limite e della misura e si lascia sopraffare con complice superficialità dalle tentazioni). Da Dio al Demone il passo è breve, aiutato ed abbagliato dalla seduzione dell’intrigante denaro, della costante ammaliante sensualità e del conseguente successo terreno.
Come conclusione: educare e lottare per i diritti di ciascuno
E mi piace concludere questo intervento, con una frase di Victor Frankl (1903-1989, psichiatra, ebreo, autore di Uno psicologo nei lager e di Alla ricerca di un significato della vita) con un augurio, che da egoista qual sono, rivolgo in primis a me stesso e, perché ci sia coerenza con quanto scritto, anche ovviamente a tutti: “poter essere me stesso, ora ed in queste circostanze, per mia libera volontà”, a favore delle persone, nessuna esclusa.
Recentemente nel mio volume Un laico in cammino (Genova, 2019) concludevo un capitolo notando come ci erano voluti dei bambini, quelli del campo di sterminio di Teresin, per indicarci la loro verità che è poi la verità di e per tutti, almeno di quelli che hanno un’autentica passione ed intenzionalità educativa coltivata nel vivere nella semplice e discreta quotidianità. Ho ascoltato tempo fa, partecipando ad una serata musicale in occasione de Il giorno della memoria una struggente melodia paraliturgica della tradizione ebraico-sefardita arricchita da un densissimo testo costituito da due poesie scritte da due bambini ospiti di Teresin, fuse in un unicum inscindibile: “Io vorrei andare sola / dove si trova gente migliore, / in qualche posto sconosciuto, dove nessuno uccide più. / Forse andremo, forse andremo / in tanti verso questo sogno, / in mille forse, forse anche di più / dove nessuno uccide più. / Noi non vogliamo, noi non vogliamo / che ci siano vuoti nelle nostre file, / il mondo è nostro e noi vogliamo, / e noi vogliamo che sia migliore. /Io vorrei, io vorrei / andare dove nessuno uccide più.
Noi che oggi viviamo in contesti e situazioni diverse, da operatori nel sociale, ai più disparati livelli e con le più disparate competenze, non possiamo non sentire quell’urlo disperato, straziante di autenticità e di richiesta di aiuto che ci proviene da quelle terre lontane nel tempo e nello spazio; quando lo sentiamo pensiamo ai nostri bambini, minori, adolescenti, giovani, adulti, anziani che aspettano le nostre “manovre”, le nostre parole, i nostri sguardi, le nostre carezze.
Lì, in quei volti ed in quei corpi a volte così fragili, vediamo quei lontani bambini, questi bambini, i bambini tutti.
E’ per questo che dopo Aushwitz vale ancora la pena di educare, sovvenire, proteggere, curare, anzi dopo quella tragedia di atrocità, di morti e di umiliazioni subite vale la pena occuparci sempre di più dell’azione educativa. Per ricordare e non dimenticare usiamo le nostre capacità, il nostro desiderio di bene fare per bene essere nelle nostre comunità, nei nostri luoghi di lavoro siano essi i nostri centri-socio-educativi, siano i nostri studi di consulenza, ecc..
Gianfranco Ricci