Chi voterà “no” al referendum del prossimo 20 settembre, non può che valutare positivamente come, pressoché in tutti i partiti, le posizioni, al di là di quella ufficiale assunta da ciascuno, si siano più o meno articolate. Perfino tra i 5 Stelle. Una buona cosa sul piano del metodo e della maturità democratica del Paese, a prescindere dal merito del quesito referendario.
Va fatta, anzitutto, una premessa di ordine generale sull’istituto del referendum come tale. La dicotomia netta, tra il “sì” ed il “no” – propria del referendum, come strumento principe della democrazia diretta – costituisce una modalità di pronunciamento che, rapportata alla natura spesso delicata di quesiti complessi, risulta , quasi sempre, necessariamente parziale e rozza. Infatti, per quanto – in particolare allorché, come nel nostro caso attuale, non sia previsto il “quorum” – vi sia sempre un esito certo, ad una interpretazione del risultato che vada al di là del mero fattore numerico, persiste un che di indistinto e di indeterminato in ordine alle effettive intenzioni che hanno motivato il voto, sicuramente, su ambedue i fronti, più articolate di quanto si pensi.
Insomma, o si guarda solo al dato complessivo, oppure relativizzando il rilievo che pur assume la gamma delle intenzioni sottese, si presta attenzione anche al valore interpretativo di queste, senza enfatizzare, in modo stentoreo ed unilaterale, solo l’esito elettorale. Come se si potesse esportare anche in questo campo il “principio di indeterminazione” che vale in fisica, il quale sancisce un limite oggettivo ed invalicabile delle nostre facoltà conoscitive. Anche in politica, la realtà delle cose è talmente ricca da risultare inesauribile.
Da tutto ciò si deduce, altresì, quanto sia erronea ogni ipotesi di sostanziale superamento della democrazia rappresentativa ed ogni teorizzazione di una presunta “democrazia diretta” che ove si sostanziasse di ripetuti e subentranti referendum, non farebbe che accumulare, l’una sull’altra, tante cesure drastiche e profonde da esitare in una pericolosa lacerazione del tessuto civile e democratico.
Ma per tornare al taglio del numero dei parlamentari, ci sono almeno tre considerazioni cui vorrei accennare. La prima concerne la motivazione del “no”. La quale discende da una valutazione di ordine strettamente politico, sovraordinata a considerazioni di carattere tecnico-istituzionale, al punto di renderle, nella situazione data, sostanzialmente già di per sé superate.
Che i parlamentari siano poco meno di mille in un Paese di sessanta milioni di italiani – per quanto la funzione legislativa sia articolata anche in capo ai Consigli Regionali – ci sta. Ma ci puoi stare anche che siano seicento purché sia garantita una rappresentanza equanime dei territori e non sia alterata la produttività del Parlamento. Evitando, altresì che la rappresentanza dei territori in funzione dell’interesse nazionale, affidata ad una rarefatta compagine parlamentare cui istituzionalmente compete, non sia penalizzata da un rapporto squilibrato con le rappresentanze politiche regionali, orientate ad una letture più marcatamente locale delle politiche da mettere in atto. Senonché, il taglio del numero dei parlamentari è un intervento a gamba tesa diretto a screditare la democrazia rappresentativa ed aprire varchi alla democrazia delle piattaforme e relativi interessi, più o meno sommersi. Per questo, bisognerebbe forse addirittura nemmeno insistere troppo ad argomentare il pro ed il contro, perché, in tal modo, si finisce per essere comunque convocati ad una partita che va, invece, respinta al mittente.
La seconda osservazione riguarda il pronunciamento delle forze politiche e la libertà di voto. In quanto momento di democrazia diretta, il referendum concerne immediatamente la libera ed autonoma facoltà critica del cittadino.
Dovrebbero ammetterlo esplicitamente tutte le forze che pur legittimamente prendono collettivamente posizione, riconoscendo piena legittimità a tutte le diverse sfumate sensibilità che si registrano nei loro ranghi.
Tra la democrazia rappresentativa e la democrazia diretta non c’è una sorta di democrazia, si potrebbe dire, “telecomandata”, tale per cui alla strumentalità del quesito si aggiunge la strumentalità di un uso improprio della dialettica referendaria, fatta di appelli, cordate, cartelli, aggregati di varia natura, orticelli del leader d’occasione che, al di là o a dispetto della questione in gioco, come spesso succede – e forse anche ai giorni nostri – hanno lo scopo di regolare conti interni alle varie forze, lanciare messaggi trasversali, blandire, a futura memoria, posizioni altrui, precostituire ruoli, dia pure gregari, in vista di evoluzioni possibili, che, con il referendum come tale, poco o nulla hanno a che vedere.
La terza considerazione, in linea con la precedente, concerne il rifiuto di ogni assurda, cervellotica ipotesi di un fantasmativo “partito del no” che qualcuno, in debito di ossigeno, ha pur avanzato, in vista della prossime elezioni amministrative.
Domenico Galbiati

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