Un cambiamento radicale delle nostre vite, dalle regole alle abitudini. Questo sta portando il coronavirus, tra le altre cose.

E l’impatto toccherà anche la mentalità, la concezione delle cose.

Di questo abbiamo parlato con il prof.Stefano Zamagni, già presidente dell’Agenzia per il terzo settore, professore alla Johns Hopkins University, preside della Facoltà di economia dell’Università degli Studi di Bologna, tra i principali collaboratori di papa Benedetto XVI per la stesura del testo dell’Enciclica “Caritas in veritate” (tra il 2007 ed il 2009) e, dal 2019, presidente della Pontificia accademia delle scienze sociali.

Professor Zamagni, come riporta anche wikipedia, lei è un esperto mondiale di economia sociale. Qual è il suo punto di vista sull’attuale situazione?

Guardi, chi conosce il carattere italiano, e qui la storia parla chiaro, sa che gli italiani hanno una peculiare caratteristica: hanno bisogno di arrivare fino alla linea del baratro; quando ci arrivano, allora si spogliano delle tante litigiosità, si rimboccano le maniche e ripartono. E’ sempre stato così. Questo mi porta a congetturare che, una volta terminata questa emergenza, da parte della nostra gente ci sarà una ripresa potente di interesse a quello che si chiama “bene comune”.”

Cosa intende?

Questa pandemia ci indica che l’aver mirato al “bene totale” ha prodotto i guasti che stiamo vedendo. Bisogna appunto sostituire all’aggettivo “totale”, l’aggettivo “comune”. Ciò significa che le persone e soprattutto le imprese devono sì operare per restare sul mercato in condizioni di vitalità e sostenibilità economico-finanziaria, ma non solo: l’errore, e qui la responsabilità è anche dei professori di economia, è dire che l’obiettivo dell’impresa è massimizzare il profitto per gli azionisti (shareholder value).”

Effettivamente è ciò che dicono. Secondo lei, invece, quale sarebbe l’obiettivo dell’impresa?

Storicamente, l’impresa, nasce con una missione: produrre valore; o meglio, creare valore. Questo valore creato non deve traghettarsi tutto, senza residui, nel profitto. Il profitto deve prendere una parte, anche rilevante, del valore, ma non tutto com’è successo negli ultimi 25-30 anni.

Su questo tema molti studiosi di economia stanno cambiando la loro prospettiva.”

E come si può determinare questo cambiamento?

Ce ne sarebbero tanti, ma mi sento di indicare quattro punti in particolare.

Il primo punto è quello che abbiamo appena visto. Il secondo punto sta nel comprendere la natura propria della burocrazia: oggi tutti sono contro la burocrazia, nessuno si sogna neanche minimamente di parlarne bene, ma questo è un errore gravissimo.”

Curioso. Perché?

Perché la burocrazia non è la causa, è l’effetto. La causa che genera la burocratizzazione è la ricerca della rendita; e la ricerca della rendita è una disposizione d’animo che colpisce sia il settore pubblico che quello privato. Questo perché la burocrazia è lo strumento che consente (allo Stato o all’imprenditore privato) di acquisire e mantenere le posizioni di rendita.

La rendita è il nemico numero uno sia del salario, sia del profitto: più alta è la rendita e più basso è il profitto e dunque più basso è il tasso di investimento in innovazione. D’altro canto, più basso è il salario, più bassa è la domanda effettiva.

Questa pandemia farà piazza pulita di questa mentalità perché ha dimostrato che se un’impresa non fa innovazione vera, va fuori mercato. Guardiamo un banale ed immediato esempio: le uniche imprese che sono comunque riuscite a funzionare sono quelle che hanno attivato lo smart working (15-20%); non tanto per aver messo i computer a casa dei dipendenti, ma perché hanno cambiato l’organizzazione del lavoro. Ad oggi, sempre per via della ricerca della rendita, imprese e organizzazioni non vogliono cambiare il modo di produzione, rimanendo abbarbicate all’obsoleto modello Taylorista e perdendo resilienza.

Se applichiamo il concetto all’amministrazione pubblica, capiamo perché tutti i partiti, da sinistra a destra, vogliono conservare la burocrazia. Tutti promettono di ridurla senza mai farlo: la burocrazia serve alla politica per mantenere le proprie posizioni di potere.

Le imprese – chiaramente e per fortuna ci sono lodevoli eccezioni – non denunciano con decisione la cosa perché loro stesse sono vittime della burocrazia e quindi temono operando contro la burocrazia pubblica che alla fine la cosa si ritorcerebbe contro di loro.

Quindi, se la seguo correttamente, una volta messa a fuoco la necessità di puntare sul bene comune e non sul bene totale, bisogna lavorare sulle cause che generano la burocrazia. Il terzo punto, invece, quale sarebbe?

“Il terzo punto è l’istruzione.

Bisogna cambiare radicalmente l’architettura del comparto scolastico universitario. L’attuale struttura è ancora quella della riforma Gentile del ventennio fascista: una struttura di tipo Tayloristico, dove il docente svolge il ruolo del capo officina che controlla che gli studenti imparino la lezione e dove l’istituzione funziona come un’aula di tribunale dove i giovani vengono giudicati e sanzionati (nel senso che se il giudizio è negativo, vengono bocciati).

La domanda è: perché in oltre settant’anni tutte le forze politiche non hanno avuto la forza di cambiare l’impianto fascista su un tema importante come quello dell’educazione? Perché ci si è limitati da approvare riforme e non una trasformazione?

E’ evidente che si debba attendere che siano i cittadini che si organizzino e comincino a far sentire la propria voce, se realmente si vuole che la scuola torni ad essere luogo di educazione e non solo di istruzione.

Prendiamo il caso di quella riforma nota come alternanza scuola-lavoro: chi l’ha inventata spero avesse buone intenzioni, ma ha commesso un errore enorme! Non ci può essere alternanza tra scuola e lavoro, ma piuttosto convergenza scuola-lavoro.

Quindi il terzo punto è inerente alla riforma dell’istruzione, che si collega anche con quanto detto in apertura. Il quarto punto?

“Infine c’è lo scandalo per cui, in questo tempo di emergenza, il terzo settore è stato tenuto in disparte: abbiamo il miglior terzo settore del mondo tra volontariato, cooperative sociali, imprese sociali, ONG, fondazioni, e non è stato coinvolto nel processo decisionale.

La dimensione del sociale non è garantita dallo Stato, dagli ospedali, dalla polizia o dai carabinieri, ma è garantita dal terzo settore.”

Come vede l’evolversi della situazione?

“Ora i nodi sono arrivati al pettine e vedrà che quando sarà finita questa emergenza, si innescheranno cambiamenti a catena.

Le persone stanno già capendo quanto abbiamo detto prima, si tratta solo di aspettare che un qualche soggetto collettivo dia il via al processo. Non servirà molto tempo, alcuni mesi; al massimo entro la fine dell’anno.

E non sarà questione di trovare un leader, quelli emergono dopo. Si tratta piuttosto di sensibilizzare la società civile organizzata.

Quando si sarà raggiunta la massa critica, il processo di ricostruzione del paese potrà avere inizio.

Vada a vedere il sito dell’associazione “Politica Insieme” ed avrà già un’idea dello stato dell’arte.

Intervista di Francesco Puppato pubblicata su General Magazine ( CLICCA QUI )

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