Dalla tenuta morale del Paese, dipenderà, in larga misura, quello che sapremo ricostruire o meno non solo sul piano economico-produttivo, bensì anche in ordine alla qualità della vita civile e della democrazia verso cui ci incamminiamo. Con quale tenore, con quali sentimenti e con quale psicologia collettiva il Paese uscirà dal tunnel della pandemia?
Con quale coscienza di se’ e del momento che stiamo attraversando? Con quale consapevolezza di ciò che di più autenticamente umano mette in gioco il frangente in cui siamo immersi? E se anziché di un tunnel si trattasse di una caverna, cosicché per rivedere la luce piuttosto che avanzare, dovessimo tornare sui nostri passi? Non sarà forse questa la prima tentazione a prevalere, per una forza d’inerzia che cercherà di trattenerci dall’esplorare una dimensione nuova, quel tempo dopo la pandemia che ha il sapore insieme accattivante ed acre di una nuova avventura?
Stiamo arrivando ad una sorta di bivio “interiore” dove ogni persona, ma anche ogni famiglia, ogni corpo sociale, ogni forma collettiva deve decidere per sé, orientare il proprio cammino in autonomia. Dopo tante parole buttate al vento sul “nuovismo” che ci trasciniamo, sempre più stancamente, almeno dalla metà degli anni novanta, il tema di un “tempo nuovo”, inaggirabile, è posto dalla forza ineluttabile degli eventi.
Qui ricercare nel “gregge” l’immunità dalla fatica di essere sé stessi, significherebbe abdicare dalla propria libertà.
Vale anche per noi, per gli amici del Manifesto e di Politica Insieme. A maggior ragione, è preziosa la nostra autonomia che, al di là dello stesso piano politico su cui l’abbiamo fin qui considerata, assume ora un carattere anche più impegnativo, una valenza di ordine morale. Così come acquista una evidenza inedita il presupposto delle competenze da mettere in campo.
Ha ragione Zamagni quando propone che le intelligenze più vive e più creative di cui dispone il Paese, si pongano al suo servizio, suggeriscano un indirizzo di “trasformazione”. Senza illusioni tecnocratiche e senza subire condizionamenti di parte, ma piuttosto evocando la politica al ruolo che ad essa – agli organi parlamentari che esprimono, in termini di rappresentanza, la sovranità popolare – e solo ad essa appartiene.
Anche il nostro lavoro programmatico cambia segno. Passare dal Manifesto al programma di Politica Insieme non è più da concepire come un’operazione interna al nostro piccolo mondo, ma deve ricercare quella forza e quella coerenza che gli conferiscano il carattere di un “appello” che, pur con la nostra flebile voce, osiamo rivolgere, ben oltre i nostri confini, al Paese stesso.
Autonomia, competenza, nuova classe dirigente. Anche quest’ultimo è un tema già posto ed accantonato che dobbiamo osare riprendere. Chi ha avuto , a cominciare dagli ex- parlamentari, qualche significativa esperienza politica si faccia carico di aiutare studiando, scrivendo, suggerendo, formando i più giovani, ma devono essere questi a calcare la scena. E se questo prima poteva essere un criterio tra gli altri, un impegno personale diretto ad attestare la volontà effettiva di aprire una pagina nuova dell’impegno politico dei cattolici democratici e popolari, ora si tratta di una condizione che si impone e di cui si tratta di prendere atto. Semplicemente.
Non si tratta di rottamare, ma piuttosto di valorizzare e quindi che ciascuno prenda a suo carico il compito che oggi gli compete. Forse possiamo applicare anche al nostro tempo, le parole che Romano Guardini pronunciò all’ Università di Monaco, inaugurando il monumento ai ragazzi della Rosa Bianca che, per più aspetti, poteva considerare anche suoi figli spirituali: “La realizzazione di questa nuova forma del mondo costerà non soltanto un lavoro incalcolabile, ma anche grandi sacrifici e questo è normale. Ma un sacrificio non può richiederlo, se non vuole cessare di essere una forma umana del mondo: il sacrificio della libertà’”.
Ma per tornare all’Italia ed agli italiani, ci scopriremo più sollevati, più liberi, più estroversi dopo questo buio, come se cercassimo alla luce del sole, il tepore delle relazioni interrotte oppure più introversi e guardinghi, ancora impauriti e diffidenti, appostati sulla difensiva? Più altruisti, solidali e generosi oppure più egoisti, sempre all’erta, pronti a difendere il “sovranismo” del cortile di casa?
Più fiduciosi, aperti e disponibili oppure circospetti, sospettosi l’un dell’altro, intimiditi? Giunti allo spartiacque saremo curiosi di scrutare un nuovo orizzonte o cercheremo alle nostre spalle le nicchie, sconnesse, ma pur sempre rassicuranti, delle certezze costruite con tanta fatica? Conserveremo quel clima di “amicizia civile” che sembra, almeno qua e là, affermarsi nel naufragio comune oppure, scampato il pericolo, cercheremo ognuno per sé e rabbiosamente di rifarci del maltolto?
Abbiamo bisogno di un’ autorità morale che ci rassereni e ci guidi, ci preceda su una strada sicura e ci indichi la via.
Ci aiuti a capire se quel che succede ha un senso o se possiamo, se non altro, essere noi a ricercarne uno attendibile, riordinando eventi che appaiono solo desolatamente insensati. Per non intralciare il cammino dovremo lasciare gran parte delle salmerie di un tempo esausto aldiquà del crinale che separa due stagioni della nostra storia.
Solo chi ha radici profonde val la pena che, a costo di svellerle da un terreno inaridito, le porti con sé e le rimetta a dimora in un humus fresco che le sappia accogliere come eredità e come nuova risorsa. In queste settimane non si sono sentite né dal mondo degli intellettuali né dal contesto politico voci autorevoli, capaci di offrire una guida.
Né dal mondo dei conservatori e neppure dal fronte dei progressisti.
Tanto mero dal moralismo taroccato del “Vaffa”, né dalla demagogia gretta del “prima gli italiani”. Abbiamo, anzi, dovuto sopportare maestri indecenti che, al momento della prova, si sono ingrottati nel nulla. La pandemia, del resto, è quanto di più anti-ideologico si possa immaginare. Tracima e strappa gli arabeschi mentali, le ragnatele cerebrali di chi pensasse di avere scoperto quella “legge del tutto” che guida la storia del mondo, magari nel segno di una “religione del progresso”, necessario, illimitato, ineluttabile, che, nel segno della tecnica, sembra quasi farsi da solo.
Ma dove possiamo rintracciare questa autorevolezza morale, soprattutto per segnalare ai giovani dove vi possano liberamente attingere? Dalla Costituzione, anzitutto.
Dalla riscoperta di quella “legge fondativa” che, da qualche tempo, rischiamo di maltrattare ed è il luogo in cui si raccolgono i sacrifici, le passioni, i pensieri, lo studio, le intuizioni degli italiani che hanno riscattato il Paese dal fascismo e dalla guerra, restituendogli la dignità della libertà e della giustizia. Dalle nostre millenarie radici cristiane.
Dallo studio sistematico della Dottrina Sociale della Chiesa. Dalle grandi Encicliche sociali che dalla “Rerum Novarum” alla “Pacem in terris” dalla “Populorum progressio” alla “Centesimus annus”, dalla “Laborem exercens” alla “Deus Caritas est” alla “Laudato sI’” hanno offerto una guida sicura agli uomini di buona volontà.
E poi da tante persone semplici. Da chi si spende con passione e con serenità, anche in momenti drammatici, nelle opere di volontariato. Dai tanti docenti che sentono come una missione l’insegnamento e l’educazione dei giovani.
Da tutti coloro che operano nelle professioni “di prossimità”, ai quali non basta la competenza tecnica, se non è accompagnata da una carica di empatia che può nascere solo dallo spessore della coscienza di ciascuno. Dai medici e dagli operatori sanitari che non è vero che sono “eroi”, almeno non tutti i giorni, ma quando ci vogliono, ci sono.
Non mancano all’appello perchècrescono in una “pedagogia del dolore” che li allena giorno per giorno.
Molti non lo sanno, ma quando suona la campana, forse loro stessi se ne sorprendono, ma scoprono di essere pronti.
Domenico Galbiati

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